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Festival del Cinema Europeo
Lecce, 2-9 giugno 2001
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Intervista a Carlos Saura

Carlos SauraAbbiamo incontrato il regista spagnolo in campo neutro, non nel nostro albergo e non al cinema dove erano proiettate le sue opere, ma nella hall del hotel President. Comodi su pesanti divani grigi, circondati da tavolini dal filo minimalista, abbiamo discusso soprattutto sul primo cinema della sua carriera. La persona di Carlos Saura, abbracciata con affetto da Vittorio Storaro appena arrivato in albergo proprio mentre stavamo parlando con il regista, ci ha colpito per semplicità anarchica e disponibilità critica. Il suo spagnolo un po’ confuso dal maccheronico italiano, condito da movenze tipiche del parlare latino, abbiamo provato a trascriverlo nella maniera più corretta possibile.

La prima fase della sua carriera cinematografica è segnata da una serie di prodotti marcatamente politici, poi questo radicalismo ideologico sembra venir meno…

Io credo… è difficile fare un’analisi in questo senso. Io credo che la politica nei miei film non sia mai stata il primo pensiero. A me non piace pensare di aver diretto film politici nel senso vero del termine.

Però lei descriveva un periodo particolare ed intenso della Spagna, e lo faceva da un punto di vista politico…

Ma più che politici erano film affrontati con un senso molto personale e nunca politico in ogni cosa.

Il suo cinema era allora un cinema di lotta o di resistenza?

No, io non ho…. Non è stato un cinema di… mah…. Questo è un tema molto chiaro adesso, ma in passato non è stato così per tutti ma solo per alcuni, tra i quali ci sono io: il franchismo era la mancanza totale di libertà, era la guerra civile, e noi eravamo contro tutto questo. È chiaro poi che naturalmente il cinema, le cose che venivano scritte, la pittura, la poesia erano contro tutto ciò, e così questa era l’unica finalità, anzi una delle finalità perché l’altra era la questione personale, l’approccio personale, che poi coincideva con l’ostilità.

Le chiedevo questo perché mi piacerebbe sapere come è cambiato il suo atteggiamento adesso quando deve girare un film, se a vecchie regole di regime se ne affrontano di nuove e magari dettate dalle grosse case di produzione e distribuzione.

No, questo non è esatto, non è vero. Perché quando io ho cominciato a fare cinema il problema era economico e adesso ancora il problema è di natura economica. Solo che prima c’era anche il problema della libertà che mancava…. Sono due cose diverse. Oggi si può fare cinema con tutto, con la video8 con il digitale, ma se vuoi girare un grande film allora diventa molto complicato. Quando io ho cominciato era la stessa cosa di adesso, ho iniziato con i documentari, girando per strada e con attori che non erano attori. Oggi primo la libertà di fare cinema e poi il problema economico di come farlo.

Per descrivere la Spagna, per raccontare il franchismo come periodo storico, lei ha spesso usato la metafora della famiglia. Perché non ha alternato il discorso con altre metafore che più si prestavano al conflitto?

Perché la famiglia è il centro di tutto, come in Italia, la famiglia è una specie d’unione tribale, è un po’ come la mafia anche, ma più piccolina…. La trasformazione della società è sempre la famiglia, come la nostra, quella italiana, quella spagnola, quella latina insomma, capace di influenzare tutte le cose. Io credo che se si racconta la famiglia si può raccontare tutto il paese, perché è un riflesso della società, lavoratori, disoccupati, borghesia.

Negli elementi di queste famiglie, l’omicidio dell’anziana madre, che ricorda la Spagna immobile e madre del pensiero borghese e franchista, è pensato attraverso l’uso del veleno…

Di che film stiamo parlando?

Di Cria cuervos, dove la figlia oniricamente programma di uccidere tutti con veleno per topi, in Ana y los lobos ed in Mamà compie cento anni c’è ancora la voglia di far morire la vecchia immobile con il veleno…. È un suo feticcio oppure ha un senso particolare quest’arma?

La scelta del veleno non è stata pensata appositamente… …la cosa che io penso invece è che la morte è la situazione limite della vita. Come in tutte le tragedie, nella narrativa, c’è la morte perché se non c’è la morte non c’è niente. Anche quando ho incominciato a scrivere io le storie, da solo, ho cercato di eliminare la morte dai finali, ma è stato impossibile farne a meno perché sono due cose, la storia e la morte, che s’incontrano sempre alla fine.

Ma in Cria cuervos alla fine l’omicidio non si completa….

Beh, quello è un gioco diverso, claro, dipende… …comunque io credo che in un film sia normale che si tratti il tema della morte.

Lei si considera un autore razionale o istintivo?

Non lo so, credo d’essere razionale ma sono istintivo, molto.

Quando a Berlino vinse l’Orso d’argento con La caza (La caccia), in giuria c’era Pier Paolo Pasolini, che ricordo ha di lui?

Mi ricordo molto bene di lui, anzi perfettamente. Perché Pasolini… questa è una cosa curiosa, il film con cui partecipai era molto piccolo e fu proiettato il primo giorno e a noi avevano dato una Mercedes con la quale giravamo, e quando lo abbiamo incontrato lo stesso giorno che proiettammo il nostro film Pasolini venne da me e mi disse — Sei tu che devi vincere, è impensabile che tu non vinca, credi a me!

La incoraggiò….

Chi ha vinto, non ricordo… …ah sì il bellissimo film di Polanski!… Sì, e poi presi l’Orso d’Argento ed il film incominciò a girare, andai a New York… …e sono molto amico anche di Citti.

Lei ha iniziato la sua carriera come fotografo, poi ha proseguito con maggiori successi con la regia. Com’è nata la sua collaborazione con la cinematografia di Vittorio Storaro?

Vittorio ed io abbiamo avuto una specie di simbiosi, d’intendimento, di comprensione. Storaro è una specie di avventuriero, non so se mi spiego, è uno che ama sperimentare, trovare nuove cose, lavorare in direzioni diverse, è per questo che ha lavorato con me, perché ha visto le cose che faccio io e sono le stesse sue. Noi due siamo così cresciuti collaborando e spero di continuare a lavorare con lui….

a cura di Ofelia Nunzi e Mario Bucci