Haunting Presenze
Regia: Jan
De Bont
Sceneggiatura:
David Self dal romanzo “The haunting of Hill House” di Shirley Jackson
Fotografia: Karl
Walter Lindenlaub
Produzione:
Susan Arnold, Marty P.Ewing, Donna Roth, Colin Wilson
Interpreti:
Liam Neeson, Catherine Zeta-Jones, Lili Taylor, Owen Wilson
Origine:
U.S.A., 1999
Durata:
112’
Le uniche presenze che garantiranno ad Haunting buoni
incassi sono quelle di tecnici esperti di effetti speciali digitali, lo
scenografo premio Oscar Eugenio Zanetti, organizzatore del decor metà gotico,
metà barocco di Hill House.
La novella di Shirley Jackson “The haunting of Hill House”
era già stata portata sullo schermo da Robert Wise nel 1963. I suoi invasati,
come recitava il titolo italiano, erano di gran lunga più ambigui e spaventosi
dei personaggi attuali e la casa, con i suoi pochi effetti speciali, era molto
più inquietante.
Jan De Bont, regista dei due Speed e di Twister,
è un esperto di sintesi. E queste ultime sono pericolose nei film di paura,
perché la paura è un sentimento strano. Ha bisogno di alimentarsi, di crescere
sotto l’epidermide, quasi inconsciamente, per deflagrare, irrompere senza
possibiltà di riparo e rassicurazioni.
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La versione di De Bont è invece molto rassicurante. La prima
ragione è che il film accoglie la dimensione misteriosa, ma la sviluppa lontano
dalle psicologie dei personaggi protagonisti. Il dottor Marrow (Liam Neeson),
Theo (Catherine Zeta-Jones) e Luke (Owen Wilson) appaiono freddi e il loro
grado di coinvolgimento alla vicenda è vicino allo zero. D’altra parte De Bont
segue con la cinepresa le performance della casa-organismo del suo crudele
proprietario, il cinico industriale tessile Hugh Crain, assassino di piccoli
bambini. La casa ha un’anima nera che si materializza nelle forme mostruose
delle statue gigantesche o dei bassorilievi scolpiti nelle porte maestose, in
agguato nell’oscurità dei corridoi, nell’antro spaventoso di enormi camini. Le
deformazioni dei tetti e delle porte, di ogni oggetto presente nella casa
ricorda tanto le visioni di Cronenberg-Burroughs, ma senza l’angoscia terribile
delle metamorfosi di oggetti inanimati in corpi di carne e sangue.
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Se dunque il decor funziona, il merito è ascrivibile
soltanto alle caratteristiche architettoniche del castello, la struttura
narrativa è davvero risibile. De Bont opera scellerate ellissi che diluiscono
la tensione, l’annullano proprio quando si sta seguendo la via giusta per il climax.
Evidentemente l’unica sensibilità del regista riguarda le sequenze di pura
azione, in cui il mostro si avventa sulle vittime, provocando veri tornado che
distruggono tutto al loro passaggio. Non essendo uno slasher movie, né un
semplice horror, non si vedono né sangue, né assassini, De Bont identifica con
precisione il male, ne fa una forza bruta prepotente, da soggiogare proprio
come un ciclone. Il soprannaturale è un fatto conosciuto. Ci sono il paradiso e
l’inferno, e, naturalmente, il purgatorio dove, insieme ai poveri bambini
assassinati, soggiorna il film di De Bont in attesa di redenzione.