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Dark Horse Anno: 2011 Regista: Todd Solondz; Autore Recensione: Roberto Matteucci Provenienza: USA ; Data inserimento nel database: 16-09-2011
Todd Solondz racconta personaggi esagerati, situazioni assurde, atteggiamenti stravaganti eppure tutti esistenti. Il suo desiderio è quello di presentarci non una descrizione della realtà quotidiana, ma la scansione della mente che le persone avrebbero se fossero libere da vincoli e costrizioni.
Lo stesso accadde nel suo film presentato due anni fa alla Mostra di Venezia Life Durino Wartime (http://www.cinemah.com/neardark/index.php3?rece=1624).
Personaggi allo sbaraglio, senza inibizioni si gettano in oscure ed assurde situazioni umane e sociali.
Certo la cultura ebrea di Solondz aiuta la sua ironia a prevalere.
Ridiamo nello sconforto di un’assurdità, capace di colpire noi stessi. Di cui, forse, siamo già stati bersagliati, ma tenuta nascosta perché manteniamo quella giusta dose d’inibizione a frenarci.
In Dark Horse ci è raccontato un frammento della vita di Abe.
Abe ha delle difficoltà umane e relazionali. Castrato dalla famiglia borghese e falsamente innocente, è umiliato da un padre potente e alienato.
Potrebbe essere un classico nerd, ma supera questo limite per diventare un triste buffone incapace di vivere. Questa volta Solondz compie un passo avanti, o indietro, la sua solita ironia con cui accompagna i tristi momenti delle storie qui diventa malinconia ed infelicità.
Delineando Abe in forma centrica, confrontandolo con la figura del fratello Richard - uomo di successo e brillante - appare chiaramente la cultura ebraica di Solondz.
Abe si chiede perché lui è un povero fallito, mentre il fratello è un brillante uomo di successo.
Il perché di questo fato lo domanda alla madre, come se lo chiedesse a Dio.
Il risultato è inequivocabile, Dio compie la sua scelta definitiva ed onnipotente, senza giustificarsi.
Muovendo la camera con primi piano, scene delineate dal basso, momenti di silenzio e pausa, il regista ci racconta con il suo classico linguaggio il film.
Accentua il tutto con colori e disegni sgargianti e primari, come se tutto fosse irreale.
Raggiunge la finezza di disegnare il bancone del negozio di giochi come un cubo di Rubik aperto.
Il tono malinconico ci spiazza. Forse impreparati a recepirlo, come avrebbe voluto il regista.
Avrebbe dovuto mostrarci un diverso linguaggio, forse più cupo o forse sparpagliando prima i vari personaggi.
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