Il
marchio dell’assassino (Storia di
una meretrice). Seijun Suzuki.
1967. GIAPPONE.
Attori: Jo Shishido, Anne Marie, Mariko Ogawa, Koji Nambara, Isao Tamagawa,
Hiroshi Minami
Durata: 92’
Altro
titolo conosciuto: Farfalla sul mirino
Titolo
originale: Koroshi no rakuin
Il killer professionista Hanada,
numero tre nella graduatoria, è assoldato per una missione. Ad affiancarlo un
collega dedito all’alcool, che rimane ucciso. Tornando dalla missione conosce
la giovane Misako, una ragazza affascinata dall’idea della morte. Hanada torna
ugualmente a casa della moglie fino a che un giorno non è assoldata dalla
stessa Misako per uccidere un uomo. Hanada fallisce il colpo ed uccide un
innocente: l’Organizzazione decide che è giunto il tempo di farlo fuori. Ci prova
prima sua moglie, assoldata dal boss Yabuhara, ma senza successo, e Hanada si
rifugia da Misako. Dopo essere riuscito a sconfiggere tutta l’Organizzazione,
Hanada torna dalla moglie e la uccide ma quando rientra nell’appartamento di
Misako trova un filmato che la mostra morire. Deciso a vendicarsi, Hanada
accetta la sfida del numero uno dell’Organizzazione, che si firma centrando le
vittime in fronte, il quale prima lo tiene sotto tiro nel suo appartamento ed
alla fine, dopo aver convissuto con lui per un po’ di tempo, gli lancia la
sfida finale in una palestra. Hanada accetta e riesce ad ucciderlo, ma rimane
ferito. Entra Misako, risparmiata dall’Organizzazione, ma Hanada spara prima
che possa riconoscerla, morendo.
Gangster movie originale,
astratto, unico del regista regolarmente distribuito nel nostro paese, che
parla della perdita dell’identità maschile, in special modo proprio nel genere.
Un killer professionista, Hanada, un sicario dalla faccia triste affascinato
dalla morte e dalla solitudine (la lunga digressione sul rapporto sessuale tra
lui e la moglie, tra masochismo e sado-misoginia) che non è in grado però di
uccidere la donna della quale s’innamora (la farfalla che si posa sul mirino e
gli fa sbagliare il colpo e poi tutti i tentativi falliti). È la caduta del
mito, la furia cieca che si ritorce contro se stessa (delirio finale),
l’incapacità di abbandonare l’orgoglio (Hanada potrebbe evitare di morire, ma
accetta la sfida perché non è un vigliacco), l’impossibilità di sfuggire al
destino, la parodia triste di un genere intero. Dotato di grande capacità nel
saper dosare senza abuso quasi tutti i linguaggi visivi a disposizione
(soggettive, introduzione dei fumetti, uso del negativo, costante uso del
cambio fuoco, carrelli, visione nella visione, rallenty, montaggio a stacchi,
sonoro in e off) il regista Seijun Suzuki si concentra sui diversi sottotesti
della storia quali su tutti amore e morte (soprattutto in chiave Naghisa
Oshima), vincita e sconfitta della propria morale, e fedeltà e tradimento,
attraverso una messinscena di stampo quasi teatrale (la città scompare, diventa
muta, un fondale privo d’anima ma dotato di grande presenza scenica) e con un
senso costante della provocazione, si potrebbe dire alla Carmelo Bene, senza
Carmelo Bene (passione per il vapore di riso, ellissi incompiute, stacchi
narrativi), quasi un Godard (scavalcamenti di campo). C’è quasi tutto il
regista di Hong Kong John Woo in questa pellicola, in special modo in quelle
del periodo a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, e molto di più (il primo
e l’ultimo Quentin Tarantino), come ad esempio mezzo Fernando Di Leo de Il boss (1972) con il rapporto privato
uomo-donna all’interno dell’appartamento, e Senza
un attimo di tregua (1967) di John Boorman, con l’isolamento dell’eroe
braccato dall’Organizzazione. “Siamo
bestie, e le bestie stanno bene con le bestie”. Lo dice la moglie di
Hanada, in un momento d’amore. È questa forse la migliore chiave di lettura
della pellicola, l’ultima, la 39°, che il regista diresse per la casa di
produzione Nikkatsu [i].
Bucci Mario
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