Violent
cop. Takeshi Kitano. 1989. GIAPPONE.
Attori: Takeshi“Beat” Kitano,
Maiko Kawakami, Makoto Ashigawa, Shiro Sano, Haku Ryu, Ken Yoshizawa, Ittoku
Kishibe, Shigero Haraizumi
Durata: 103’
Titolo
originale: Sono
otoko, kyobo ni tsuki
Giappone. Tokyo. Una banda di
giovani balordi aggredisce un vecchio barbone. Il commissario Azuma, che ha
assistito a quanto accaduto, si presenta a casa di uno degli aggressori e dopo
averlo picchiato lo costringe a presentarsi il giorno dopo in questura. È la
prima sequenza, quella che descrive il personaggio del commissario: ligio alla
morale della polizia, duro, senza mezzi termini, il commissario Azuma incarna
perfettamente il rispetto del codice. Uno squilibrato killer al soldo di un
ricco trafficante di droga della città, incomincia però a mietere vittime. Le
indagini della questura portano a mettere in luce particolari collegamenti tra
la squadra della narcotici ed il gruppo criminale. Con l’intensificarsi delle
indagini aumenta anche il numero delle vittime. Lo spietato killer decide
allora di risolvere la questione personalmente, soprattutto dopo che il suo
capo è stato accusato direttamente dal commissario Azuma. Il killer fa
sequestrare la sorella di questo, donna sola e con problemi psicologici. Azuma,
che intanto è stato cacciato dal dipartimento, decide di vendicarsi da solo.
Prima uccide il capo della banda criminale ed infine lo stesso killer.
Accortosi della nuova tossicodipendenza della sorella, nel braccio della quale
i rapitori si sono divertiti ad iniettarle eroina, decide di uccidere anche
lei, non sopportando di vederla in crisi d’astinenza. È freddato poco dopo dal
segretario del boss. Il rapporto tra malavita e polizia può riprendere
tranquillamente: il segretario ha sostituito il boss ed il compagno giovane del
commissario lo stesso.
Esordio dietro la macchina da
presa per l’artista giapponese. Traendo spunto da una trama per certi versi
scontata quanto il genere (scritta da Hisashi Nozawa), il neo regista nipponico
riesce, mostrando una capacità invidiabile di sintesi dell’immagine, a
modificare le regole del gioco a suo piacimento (anche perché in prima battuta
non era stato scelto lui per dirigere questa pellicola): l’omicidio finale
della sorella ad esempio è contrario a qualsiasi regola del genere, ammesso che
debba essercene una. Più che un film è il biglietto da visita del regista,
l’ingresso nel mondo privato della cultura cinematografica (l’irruzione
del suo personaggio nell’appartamento dell’aggressore). Ogni inquadratura è un
esercizio di stile che nel computo generale della pellicola non è mai fine a se
stesso, non si compiace anzi, si mostra efficace. I tempi sono ovviamente
quelli del cinema orientale, dall’uso dei campi lunghi percorsi per intero ai
silenzi di fronte alla morte ed alla violenza, ma Kitano dimostra di possedere
anche ottime qualità di un altro tipo di cinema (alcuni carrelli ricordando non
poco quelli di Martin Scorsese, in special modo quelli negli interni, e molti
dei campi lunghi ricordano il genere western). La vera paura di esprimere un
giudizio su questo regista che ripeto, ha una proprietà stilistica assoluta, è
nell’ambiguità dei suoi messaggi: se è vero che non siamo di fronte ai vincenti
protagonisti dei poliziotteschi anni settanta (sia italiani che di matrice americana)
bensì di veri e propri condannati a morte, gli elementi moralistici ai quali il
regista fa riferimento sembrano avere caratteri, purtroppo, indiscutibili ed
oggettivi (il matrimonio e l’ideale dell’ordine poliziesco soprattutto,
mancando il quale il commissario Azuma perde la testa). Particolarmente
efficace il sovrabbondante uso del sangue. Sorprendente la primissima
inquadratura, il mezzo busto del vecchio barbone che sembra uno stop motion,
e che non è, ed il suo sorriso mancante. “Attenzione, quest’uomo è
pericoloso” è il significato del titolo originale (Mereghetti –
Dizionario dei film 2000).
Bucci Mario
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