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Mostra del Cinema di Venezia 2003

Diario:

E si comincia a parlare di Leone d'oro. Dubbi, ipotesi, previsioni si accavallano gli uni sulle altre, ma i titoli che ricorrono maggiormente sono fondamentalmente tre: il Bellocchio di Buongiorno notte, 21 grams di Alejandro Gonzales Inarritu e Vorvrascenie (The return), di Andrey Zvyagintsev.

 

 

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Partiamo dall'ultimo, che nonostante il plauso quasi unanime è quello che mi ha convinto di meno. Vi si racconta la storia di due giovani fratelli che partono per un viaggio con il padre tornato in famiglia dopo dodici anni di assenza (perché se ne era andato, perché ritorna, il film non ce lo dice). Un viaggio che dovrebbe servire a conoscersi ed invece finisce in tragedia.
La straordinaria bellezza della natura incontaminata che fa da sfondo alla narrazione non basta a rendere sufficiente un film che sicuramente solleva interrogativi interessanti ed importanti (il rapporto con gli altri, il confronto con il proprio padre, il passato) ma che sorvola troppo agilmente su domande che meriterebbero una risposta o almeno una maggiore attenzione (non tanto, o non soltanto, i motivi alla base dell'abbandono e poi del ritorno del padre, quanto perché questo venga riaccolto in famiglia con tanta facilità, perché i figli accettino di fare un viaggio con qualcuno che per loro è un perfetto sconosciuto... non basta certo un legame di sangue a fare di un uomo un padre). Qui al Lido da giorni si parla di questo film come di uno dei più profondi tra quelli in concorso. Non potrei essere meno d'accordo, il grosso difetto di "The Return" è proprio la superficialità.

Altra storia per 21 grams (e altro film che ha procurato qualche contenuto disordine agli ingressi con parecchi colleghi della stampa riimasti fuori dalla proiezione). Il film ha come protagoniste tre famiglie molto diverse che per un crudele scherzo del destino si trovano a legarsi in modo drammatico. Da una parte ci sono Cristina, Michael e loro due figlie. Cristina (Naomi Watts) è una donna forte e coraggiosa che è riuscita ad uscire dal tunnel della tossicodipendenza e a farsi una famiglia di cui va giustamente fiera. Poi ci sono Paul e Mary: lui gravemente malato di cuore in attesa di trapianto, lei che vorrebbe un figlio dal marito anche se questo dovesse non farcela ricorrendo alla procreazione assistita. Infine Jack e Marianne e i loro due figli: una coppia molto meno abbiente e socialmente molto più in basso: lui entra ed esce di galera e ce la fanno a malapena a mantenere i due bambini. Un giorno Jack, forse ubriaco, investe con il suo camioncino Michael e le due bimbe. Non si ferma a soccorrerli (cosa che del resto sembra andare molto di moda anche qui in Italia da qualche tempo a questa parte) e i tre muoiono, la più piccola delle figlie avrebbe forse anche potuto salvarsi. Paul riceve il cuore di Michael ed ha così l'illusione di una vita migliore, ma il forte "debito di sangue" contratto lo spinge alla ricerca della famiglia del donatore. L'imprevisto è che Paul si innamorerà di Cristina, mettendo in moto un processo di vendetta e distruzione...
Inarritu ci regala una storia forse non particolarmente originale, il senso di già visto qua e là è forte. Ma le cose che convincono poco si fermano tutto sommato qui. Questo film ci offre infatti dei personaggi splendidi, a tutto tondo, che rimangono dentro a lungo. Una sceneggiatura ottima, con dei dialoghi sempre azzeccati (doveva essere inizialmente in spagnolo, ma quando si è deciso di ambientare il film a Memphis si è optato per l'inglese, cosa che il regista di Imagining Argentina dovrebbe forse imparare...). Attori bravissimi, decisamente in parte (soprattutto Benicio Del Toro). Uno stile narrativo molto personale (camera a mano per tutta la durata del film, fotografia sporca, sgranata, stile quasi documentaristico, tempi completamente reinventati e reiterati). Un gioco di incastri e di storie decisamente ben congegnato. Questo film ha tutte le carte in regola per vincere il Leone d'oro. Ma quasi mai a Venezia vince chi merita... esperienze passate insegnano.
(nb: i 21 grammi del titolo, spiega la voce off di Penn nel finale, sembrerebbero essere il peso che un essere umano perde nel momento del trapasso. Il peso di 5 centesimi, di un colibrì, di una barretta di cioccolato...)
(Federica Arnolfo)

Parlare del film di Bellocchio come film che vincerà o meno il Leone d'oro sicuramente non è nello stile di Expanded Cinemah.
Vorrei solo aggiungere che in Concorso c'è un solo "capolavoro": Bu san - Goodbye, Dragon Inn. Detto stupidamente qualcosa sul valore assoluto (giudizio, opinione) dei film, Buongiorno, notte di Marco Bellocchio mi è sembrato fin dall'inizio una sit com televisiva, con qualche personaggio intorno a una stanza da pranzo come Il medico in famiglia. E nel press book trovo infatti espressa chiaramente da Bellocchio questa intenzione: "mi interessava di più osservare dall'interno la vita quotidiana dei carcerieri. Questa vita quasi di famiglia, con le sue ripetizioni, le ritualità, la "normalità"... Ma questa piattezza, lo scandire tragico e sempre ripetitivo di questa storia, per me non era ancora sufficiente. A questo punto si è innestata la figura della donna, della brigatista, con tutte le sue contraddizioni". Ed ecco che il film, letto attraverso questa luminosa dichiarazione, palesa più dimensioni. Il confronto cordiale tra ideologie in un botta e risposta tra Aldo Moro (Herlitzka) e il capo brigatista Mariano (Lo Cascio) e la necessaria normalità del luogo carcerario come spazio segreto nel cuore della società "civile".
Dall'altra parte il regime di sentimenti implosi della brigatista Chiara (Sansa). Bellocchio guarda con estrema timidezza, come se non volesse provocare reazioni nella materia filmata. In effetti non vediamo esplodere conflitti, non vediamo vere e proprie scene violente se non quelle dei documenti televisivi originali. Bellocchio è riuscito a costruire in questo modo uno spazio originale della Storia (che tutti conosciamo). Gli elementi citati, le discussioni quasi eccitate tra rivoluzione del proletariato e lotta di classe e democrazia di massa senza conflitti (utopia democristiana) sono impressionanti, come lo è la maschera quasi inespressiva di Chiara, solcata da una lievissima smorfia di incertezza, ma che regala un'eccezionale atmosfera di incanto enigmatico al film. Anche le discussioni all'esterno, quando la ragazza va a comprare i giornali o nei bar riguardano le interpretazioni multiple di una tesi: chi sono i brigatisti cosa vogliono ecc.
Su questo piano strettamente ideologico il film conduce la sua partita conducendoci spaventosamente alla concretezza dell'evento. Alla crudeltà dei fatti, forse ineliminabile dell'uomo, e alla precarietà inesorabile di tutti i discorsi e quindi di tutte le ideologie. Per questo in fondo Bellocchio preferisce girare una sequenza quasi sognante. Moro che fugge, percorre quasi tranquillo la strada che lo riporterà a casa in famiglia. Ed il contrasto con l'immagine appena precedente, dell'esecuzione, dei boia in azione, è ancor più perturbante. Sta a noi scegliere tra un'immagine e un'altra (della realtà).
(Andrea Caramanna)

continua...

 

 

 


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