CinemAmbiente Torino 2005
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Solo nelle caverne cinematografiche si riesce ancora ad assistere a
film che perpetuano il motto di Glauber: «Un'idea in testa e una
cinepresa in mano». Avviene anche questo nei festival, non solo
patinati filmini tra il creazionista e il darwiniano; benché il bisogno
di accedere a ingenti stanziamenti elargiti da enti locali comporti
scelte che testimoniano una volta di più la realtà di quel 77° posto
assegnato all'Italia nella classifica della libertà di stampa. Infatti
un Festival Cinemambiente che - a Torino! - non cita mai, né ospitando
film, né prevedendo tavole rotonde, né - come sarebbe bellissimo per un
festival che si vuole schierato - inventando uno stage per imparare a
raccontare la vicenda Tav (a proposito, il film di Adonella Marena è
stato costretto a non essere ufficialmente pronto?), si riscatta con
una mini-retrospettiva di Jean Rouch, che invece lo stage qui a Torino
lo aveva fatto nei primi anni Ottanta all'interno dell'allora Festival
Giovani. Il silenzio sul Tav è una vergogna olimpica (in città ormai
paragoni inferiori a quelli olimpionici non si prendono in
considerazione) pari quasi a quella a cui si è assistito durante la
presentazione della rassegna in un bellissimo palazzotto art-nouveax in
riva al Po (un circolo di cannottieri): far parlare il manager del
termovalorizzatore ("inceneritore di rifiuti e produttore di diossina",
per il volgo) è come invitare il diavolo sul pulpito della cattedrale. Ruini lo avrebbe "incenerito".
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Poi per fortuna tra i vincitori c'è un prezioso documentario (Il caso Acna. Storie di lotte e ordinari inquinamenti che ripercorre lo scempio operato in valle Bormida in un secolo di lavorazioni che s'impiegava niente a convertire in materiali bellici al servizio di guerre e Montedison: Fulvio Montano, un giovane che opera nel settore video proprio a Torino, ha descritto effetti, ricostruito storia e orrori della valle Bormida (raccogliendo il testimone che fu già di Beppe Fenoglio, il quale aveva denunciato la fabbrica che contraffaceva la natura), ma soprattutto raccolto testimonianze a partire da due dei capofila della protesta che proseguì per decenni fino ala chiusura dell'Acna di Cengio. Si affastellano sullo schermo, collocati in positure sempre congruenti ai personaggi, tutti i protagonisti: si ride e si piange anche, ma il racconto inchioda alla sedia, mostrando come lo scontro tra interessi dell'ambiente e quelli del lavoro debbano sempre privilegiare quelli della salute.
E proprio su questo argomento la stessa sezione ospitava un duro esercizio di memoria sugli stessi argomenti, realizzato da Daniele Gaglianone (di nuovo un torinese e di nuovo una fabbrica di veleni): Non si deve morire per vivere. Questa volta sotto accusa era L'Ipca di Ciriè e a parlare tramite i loro figli erano i morti di quella fabbrica di orfani. Nessuna protezione, bastavano pochi anni (tre, quattro) e ti ritrovavi il regalino: il cancro. Daniele, come sempre inmateria di lavoro, non fa sconti a nessuno e racconta con piglio militante dall'interno dela fabbrica dismessa e in compagnia di testimoni come si svolgeva la lavorazione e le conseguenze, infine la vicenda giudiziaria.
Due opere che riconciliano con il cinema e, soprattutto in questi sei giorni, si inseriscono nel filone di quel cinema militante - ossesionato dal bisogno di sposare realtà e racconto cinematografico che fin dalla fine degli anni Cinquanta è base del documentarismo - che si è dipanato in molte proiezioni che andiamo a documentare più approfonditamente..., senza dimenticare uno di quei crudi esempi di come all'estero riescono ancora a fare documentarismo partendo dall'immissione di un pesce esogeno e distruttore nel lago Vittoria per arrivare a descrivere un sistema di sopravvivenza e di spietatezza tra gli umani (se si vogliono definire in questo modo) da incubo, come Darwin's Nightmare di Hubert Sauper, prezioso per il modo in cui mette in scena quel mondo dove i parametri occidentali saltano e riesce a non mostrarlo in modo antropologico, come finora tutti hanno fatto, ma situazioni e personaggi sono ritagliati da quel mondo e le loro silhouette non possono trovare posto altrove, non si cerca di occidentalizzarli per renderli comprensibili a noi. E tutto questo diventa insostenibile molto presto: infatti non ci sono riferimenti certi e consolidati per comprendere i comportamenti.
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