Perché parlare di Rosenstrasse proprio oggi che è morto un maestro - non un paludato professore di storia, ma un maestro che aveva subito la storia e patendola l'aveva capita, ma proprio per quello aveva ricercato quella altrui per capirne ogni volta un pezzo in più -, un frequentatore di storie orali? Perché Nuto Revelli nella storia di Rosenstrasse avrebbe dato più spazio al registratore che al teatro di posa, che tutto appiattisce e rende innocuo, mentre invece la storia individuale non è mai indolore o pacata narrazione lineare, e ancor meno primo piano con pasticcini; però avrebbe forse apprezzato l'urgenza di far affiorare il ricordo, il bisogno della giovane di affrontare una sorta di nostos, dalla natia New York alla Mutterland Berlino per scoprire una storia, che incatena la madre al rito ingessato, impedendole di uscire dalle regole del lutto, causando imbarazzi ed erigendo muri (una mania ultimamente per la cultura ebraica, che reagisce in quel modo, essendo caduta nella trappola di sentirsi minacciata da tutto ciò che non è riconducibile alla propria tradizione).
Ecco, quella cocciuta predisposizione a delegare ai riti la difesa della propria identità, senza interpretare la realtà, né elaborare davvero il lutto, quell'ottusità può davvero essere molla per volerne capire di più, per recuperare la memoria, però la registrazione del racconto - edificante piuttosto che non all'interno della shoa, che ha visto le vittime succubi della banalità del male ribellarsi poche volte e ancor meno rivendicare un diritto che potesse scalfire la barbarie del sopruso - rimane poco partecipe e più attenta alle moine tra donne, riducendo spesso a macchietta del classico film stile Il Pianista i caratteri messi in gioco, avvolti da musiche melense come il Cesar Frank, che vorrebbe essere struggente o il Lied cantato alla festa nazista, che non ha nemmeno un briciolo del sulfureo demonismo di Szabo in Mephisto o anche soltanto in minima parte il barocchismo preveggente lo sfacelo del Reich di Syberberg, sebbene il film risenta ancora della critica "marxista" degli anni settanta del nuovo cinema tedesco che finalmente approcciarono il tema della enormità perpetrata dal popolo tedesco sotto il nazismo, eliminando la rimozione, senza riuscire a scalfire le figure non naziste come il barone padre di Lena, che preferirono nascondersi l'orrore dietro un cinismo storicizzante, dando sdegnosamente le spalle alla realtà, rinchiudendosi fuori dalla storia.
Però, mentre Fassbinder vuole capire e va oltre la stessa rabbia e riesce anche a girarla in tragedia (il finale di Il matrimonio di Maria Braun non è consolatorio, come questo che rimette tutti i tasselli a posto nella più chiara tradizione hollywoodiana e Deutschland bleiche mutter di un'altra femminista, Helma Sanders-Brahms - meno scontata e schematica nella sua adesione al femminismo - non risparmia lo stupro della nazione attraverso lo stupro delle donne), la von Trotta non va oltre la maniacale ricostruzione del fatto in teatri di posa che cancellano contemporaneamente qualsiasi adesione palpabile alla vicenda se non accettando cerebralmente il filtro del racconto, che si esprime nell'impianto teatrale: mantenendo il parallelo con Revelli, nel film manca un linguaggio più vicino ai protagonisti e vi si sopperisce con splendidi primi piani curati al millimetro, con sguardi che creano percorsi e occhi che sbirciano le "sorelle" trovandovi sempre un'alleata, o una complice.
Dello stesso episodio della festa nazi, che avrebbe dovuto essere clou, e invece rimane sospeso proprio perché non verificabile come causa dell'intervento di Goebbels, è sgradevole il glissare sul "sacrificio" sessuale di Lena (ridotto a una unica lacrima sul bel volto reso più provato ma non meno bello del luminoso concerto tenuto qualche anno prima dalla pianista, che si immola dandosi al ministro nazi per salvare i reclusi. Di nuovo si ferma sulla soglia del coinvolgimento e si ritrae, come a non voler dare spessore alle protagoniste (i maschi sono come sempre ridotti a stereotipate macchiette), e questa scelta traspare nella ritrosia a penetrare l'ambiente: mancano movimenti di macchina in avanti, ingressi in stanze, perlustrazioni di camere, optando piuttosto a non guardare, a distogliere le proprie occhiate sul mondo o nascondere se stessi e il proprio sguardo di fronte al pericolo, occupandosi solo di volti e parti di corpi. Pure la giovane Hannah, che si accolla il viaggio per fare da ponte alle due epoche, anche lei di fronte al coinvolgimento emotivo nicchia: vorrebbe recuperare il suo ruolo di osservatrice e registratore dell'esistenza altrui. È come quando si cita la raccolta di fiabe più famosa - e tipicamente tedesca... e feroce - del mondo, i Grimm di Hansel e Gretel: non è l'atmosfera della fiaba a essere evocata, ma se ne ritaglia una parte allusiva che contiene il giudizio, ma non l'interpretazione dei ruoli: è esposizione senza anima narrativa e indecisa se sia il caso di azzardare un'indicazione per interpretare i forni di Hansel e Gretel al di là della facile similitudine con quelli dei lager. Manca la strega... ma soprattuto è poco presente la narratrice che negli sporadici momenti in cui è in scena catalizza la macchina da presa, fa gesti che gli ingessati protagonisti del suo racconto non immaginano nemmeno, come reclinare la testa, schiantata di fronte alla percezione del trauma subito da Ruth: "Ricordare può essere una gran fatica".
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