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![]() Insomma quella esplosione del racconto in mille schegge di storia sembra trarre linfa dal rogo del racconto stesso che si fa rappresentare solo in quel modo e in un'unica performance, perché poi finisce bruciato e le sue singole parti si manifestano nel momento in cui il fuoco le esalta. ![]() Questo serve anche per accostare i due Alex, quello precedente e quello successivo al fatto: la variazione è impercettibile, ma la bravura filmica del regista e del giovane attore sta proprio in quella impercettibilità. Infatti è smarrito, ma lo può capire solo una ragazzina evidentemente molto interessata a lui, sembra che sia catatonico e imperturbabile (e riesce a esserlo indubbiamente) ma solo perché si impone di esserlo, eppure la regia riesce a far trasparire il disorientamento senza calcare in modo che durante la visione - complice lo sminuzzamento del plot, ricomposto senza sequenza cronologica - del film sembra di cogliere il distacco, che invece è tutto costruito, come era l'apparente fragilità di Nicole Kidman in To die for Tv. Il risultato è che non esiste più la coppia oppositiva risolutezza/insicurezza, Alex sembra superare questo fattore di regolazione della personalità. ![]() Il limitare, il confine tra le due personalità è dato dalla sequenza della doccia, una svolta quanto quella del rogo finale, ma non catartica come quella, dove la disperazione lascia la strada all'insicurezza sul da farsi (il tentativo di telefonare interrotto probabilmente dalla sensazione di non poter trovare un interlocutore all'altezza della situazione e conscio della difficoltà di raccontare l'inenarrabile) e poi alla pseudolucidità dettata solo dalla necessità di nascondere le tracce di ciò che non si può raccontare. La sequenza nella doccia è eterna, più lenta di qualsiasi rallenty di altre scene nel film, l'acqua non lava l'anima, pulisce solo dalla sporcizia dei treni ma l'inquadratura sul lento scivolare del corpo di Alex seduto nella vasca con le mani sul volto si chiude nel buio, un buio che non pulisce, un buio in cui si sprofonda (e si cade ancora di più dopo, quando si scampa al giudizio degli altri e bisogna inventare l'espediente letterario per trovare un riscatto). Da qui, anche se lo spettatore la percepisce già in precedenza grazie alla frammentazione del racconto, Alex inizia a cercare di mantenere intatta la normalità della sua vita, intaccata con particolare veemenza dalla paura solo nei momenti in cui si deve confrontare con il poliziotto (entrambe le volte), ma non dal senso di colpa (era legittima difesa, si ripete fuggendo dai binari, ripreso di nuovo sul ponte e di nuovo dallo stesso angolo, come uno sguardo inquisitore): infatti non lo colpisce tanto l'evento, quanto la sensazione nuova di non riuscire a tornare al suo tran-tran rassicurante e vacuo, nemmeno lo skate nuovo, l'ovattata - e protettrice - atmosfera del liceo, la scopata con la ragazzina bellissima, biondissima e stupidissima, lo confortano. La freddezza durante il colloquio privato con il poliziotto è tutta volta a salvaguardare la sua libertà, la sua vita di sempre, le sue abitudini, non c'è senso di colpa che turbi lo sguardo fisso negli occhi di chi indaga su di lui. Un guizzo come di fiamma anche questo, di razionalità estrema, soprattutto nella tirata sulla consumazione al fast food di cui finge di ricordare (impensabilmente) le portate e la spesa, reso credibile - paradossalmente! - da una finta indecisione di un secondo. ![]() In questo caso il non-luogo mantiene le sue caratteristiche, nonostante queste abbiano prerogative forti che attirano per le evoluzioni, per il risultato obnubilante e di assuefazione dello skate: il parco è come il lago Salato dello Utah, non si differenzia dalla fattoria femminista di Cowgirl, né ovviamente dal liceo alienante di Elephant. E non à estraneo a questo senso di continuità nemmeno l'uso del carrello che accomuna quasi tutti i film di Van Sant: ossessiva presenza che pedina i protagonisti, o ne perlustra i volti mentre procedono lungo i loro itinerari attraverso strade anonime, se non ostili. La camera sta addosso ad Alex e, vista l'impostazione del racconto fatto in prima persona, sfrutta l'effetto schizofrenico che ne risulta rendendo questa presenza ancora più assimilabile alla coscienza che lo insegue (palese lo sguardo dall'esterno della casa dell'amico: assistiamo dalle finestre alla sua svestizione, ripetuta più volte a dimostrazione di quanto più centrale essa sia rispetto alla raccapricciante ripresa dello sbirro tagliato a metà) e infatti smette di essere alle calcagna del ragazzo quando brucia l'ultimo pezzo di memoriale. Per contrapposizione interno è lo sguardo sugli skater: Alex - che non vediamo mai esibirsi sulla tavola - è l'occhio sulle evoluzioni degli amici e degli skater che frequentano Paranoid Park. La sensazione è che la soggettiva di chi invece si lancia incurante del giudizio degli altri o si allena semplicemente con gli amici sia comunque seguita dall'occhio di Alex e commentata dalla sua voce e dal suo pensiero: il fascino del parco degli skater sta nel coacervo di talenti che si esibiscono per sconosciuti, che provano evoluzioni nuove, che si misurano con se stessi o con gruppi di coetanei. Tutti quei ragazzi sono potenzialmente Alex ma non è Alex a provocare quel rollio ipnotico che a volte si sente e copre ogni rumore di città, a volte è coperto dalla musica completamente fuori contesto (a questo proposito, come non notare la sequenza in cui Alex lascia la ragazzina nel campo sportivo e il dialogo si svolge, a labbra che muovono, mute, sentimenti di rabbia e delusione in lei, distacco e disinteresse in lui, voci che si annullano nella felliniana melodia di Giulietta degli spiriti?) ![]() Un'angoscia che ha forme ben scandagliate dal regista che le mette in scena attraverso i pochi dialoghi concentrati, ma soprattutto tramite le reazioni del suo corpo, da quella eclatante della sua passiva performance sessuale (come passivo rimane il suo approccio anche alla tavola: non lo vediamo cimentarsi con le giravolte del parco) a quella di sgomento davanti alla televisione che gli - ma solo a lui - getta in faccia il suo delitto. Van Sant è il regista dei corridoi come contenitori di emozioni, ma soprattutto come - diversamente tra loro - luoghi simbolo e rappresentazioni di malessere tramite luci e riflessi, campi più o meno lunghi che mediano il rappporto con il soggetto collocato al centro, anditi da attraversare aspettandosi che provenga di tutto dai loro lati che scorrono anonimi a costruirli: quasi mai la figura è posta rasente i muri, perché non sono varchi rassicuranti o protettivi. D'altra parte lo spazio in cui si è immersi non sono apparentemente minacciosi - basta cancellare le componenti potenzialmente destabilizzanti come la guerra in Iraq -, persino l'alternativo "Paranoid Park" è frequentato al massimo da novelli Woodie Guthrie. ![]() Nel primo caso Alex si reca dal poliziotto come se si trattasse della "solita" convocazione dal preside (anche se sa probabilmente cosa lo attende), la camminata è quella ciondolante, ma sicura, e in tempo reale, come quella che lo porta sulle strade da percorrere in skate. All'uscita Alex scappa dai suoi fantasmi, evocati dal poliziotto, fantasmi da cui guardarsi - come da chi indaga e che ha sicuramente i suoi sospetti ma non prove per inchiodarlo - ripercorrendo all'indietro e voltandosi a ogni passo, accelerando, sempre in tempo reale, verso il buio (come nella doccia, l'uso dell'illuminazione non è casuale). Il corridoio in entrambi questi casi sembra infinito. Il salto è fatto, a tutti i costi Alex deve difendere l'equilibrio della sua vita da quei fantasmi e mantenere il proprio segreto è l'unica salvezza, per la propria coscienza e per il mondo che lo circonda.
chiara biano
adriano boano ![]() |
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