Il
Cineclub L'Incontro di Collegno ha concesso ai propri soci un secondo
appuntamento con la cinematografia africana, presente ogni anno nelle
scelte di programma in collaborazione con il COE
di Milano: a settembre la rassegna "Lontano
da Hollywood" e ora "L'identità
ritrovata", che viene ad aggiungere
nuovi tasselli all'interno di un universo filmico, che fa ancora fatica a
emergere e a farsi notare al di fuori dei festival e delle sparute
iniziative volute da alcune associazioni culturali.
LE
BALLON D'OR di Cheick Doukouré
Sceneggiatura: Marum Brossolet, David Carayan, Cheick
Doukouré
Interpreti: Aboubacar Sidiki Sumah, Agnés Soral, Mariam Kaba, Habib
Hamoud, Salif Keita
Origine: Guinea, 1993, Durata: 100', versione originale (francese/lingue
guineane) con sottotitoli in italiano - Distribuzione COE

Dal
fascicolo distribuito dal Centro Cinematografico Culturale L'Incontro di
Collegno:
"Bandian
è un ragazzino di 12 anni, abitante in Guinea in un piccolo villaggio di
capanne. Divide il suo tempo tra i lavori domestici, la scuola e la
passione per il calcio.
Il ragazzo è molto dotato, il suo sogno è quello di giocare con un vero
pallone di cuoio, che finalmente arriva: un giorno, Isabelle,
soprannominata "Madame Aspirine", essendo un "Médecin Sans Frontiéres",
gli regala un vero pallone da calcio, usato, ma in cuoio, e Bandian lo
dipinge di colore oro... Ecco quindi "le ballon d'or"!.
Il film dà
un'immagine duale dell'Africa nera, da una parte i villaggi, in cui la
vita è difficile con le piccole entrate degli abitanti, ma esiste una
certa coesione assicurata dal rispetto delle tradizioni; e dall'altra i
grandi agglomerati urbani, come la capitale Conakry, dove la differenza
tra ricchi e poveri è enorme, la miseria è percepita come più forte a
causa della disgregazione delle tradizioni e dei valori di aiuto
reciproco, anche sopravvivere è difficile. Nonostante la tragicità di
questa realtà, l'aspetto drammatico non appare veramente, perché si
tratta dell'Africa percepita dagli occhi di un bambino profondamente
felice di vivere, egli ci comunica il suo entusiasmo: così situazioni di
per sé gravi, sono mostrate come normali. Nel film il calcio è motore di
ogni azione di Bandian, e alla fine risulterà essere ascensore sociale
per il protagonista, lo sport rappresenta il modo più rapido per scalare
la gerarchia economica e sociale, e solo per questo è accettato dalla sua
famiglia.
La strada di Bandian corre lungo un particolare filo conduttore: l'imbroglio.
Tutto il percorso del ragazzo è fondato su atti delittuosi: egli ruba un
pollo per pagare lo stregone; ruba con l'amico Bouba le provviste per
corrompere la guardia ed entrare allo stadio; un imbroglio è il fallo
volontario commesso da un giocatore della squadra avversaria che permette
di far entrare Bandian e di farsi notare. E poi ancora, alla fine del
film, per avere la borsa del club Saint-Étienne é necessario imbrogliare
sulla sua età. Sempre con il sorriso, senza alterare il buon
umore generale, Cheik Doukouré mostra come nelle società povere la
sopravvivenza passa spesso attraverso la frode e la corruzione che, in
virtù dell'arte di arrangiarsi, in assenza di giustizia, diventano
l'unico strumento per emergere.
Nella
storia del cinema i bambini votati al calcio potrebbero già formare una squadra ideale e multietnica, quelli cioé che hanno intravisto nella dedizione
totale a questo sport una reale possibilità di affrancarsi da un destino
che li avrebbe invece condannati all'anonimato o alla mancanza di
prospettive per dar forma al futuro (si pensi al
protagonista del film Il
viaggiatore di Abbas Kiarostami o al
piccolo Dalai Lama che fece infervorare gli animi dei monaci, trovando il
giusto equilibrio tra meditazione e sport, nel film La
coppa di Khyentse Norbu).
Cosa non farebbero questi ragazzini pur di poter calciare un pallone di
cuoio, magari cucito da un loro coetaneo pakistano?
Quello che stupisce di più è che a nutrire tale desiderio siano proprio
i bambini dell'altro mondo, africani e asiatici, lontani dalla
spettacolarizzazione e mercificazione che contraddistingue questo sport
occidentale, che, una volta spogliato dell'apparato mass-mediatico,
finisce col diventare gioco per eccellenza, di squadra e al contempo di
talenti individuali, che trovano la maniera per emergere fin dalla più
tenera infanzia. Dotati di una competenza istintiva, questo drappello di
bambini di un'ipotetica squadra filmica forse potrebbe insegnare qualcosa
o almeno far sognare le nuove generazioni, appassionate soltanto a
pseudo-orchestrare partite pilotate da una playstation. Questa potrebbe essere la dimostrazione che una certa forma di globalizzazione rappresenta l'ennesima faccia assunta dal colonialismo, che stavolta si appropria direttamente dell'immaginario dei colonizzati.
Il
film di Cheick Doukouré offre una possibilità in più al giovane Bandian,
quella di lasciare la squadretta locale africana per andare a giocare in
quella francese del Saint Étienne: il finale, per fortuna lasciato aperto,
non svela come andrà a finire, se il giovane diventerà sul serio un
campione, oppure, se dopo alcuni anni di duro allenamento, sarà costretto
a ritornare al villaggio per badare al bestiame. Quando scorrono i titoli
di coda, si rimane con un po' di amaro in bocca: da principio il sentimento prevalente é la solidarietà con le scelte del giovane, compiacendosi che possa emergere per
seguire la strada desiderata, in seguito si approva l'atteggiamento
dell'allenatore, che cerca di ostacolarlo, perché capisce che, così
facendo, la sua nazione sarà sempre costretta a perdere e a esportare le
proprie risorse migliori in ogni campo.
L'altalenarsi ambivalente di questi sentimenti contraddistingue anche le
scelte registiche del film: girato secondo stilemi e ritmi occidentali,
parla di tradizioni, mescolando il folklore, incarnato dagli anziani,
all'apertura al mondo esterno, a cui i giovani vengono iniziati, anche
grazie alla presenza nel villaggio di una radiolina a transistor,
perennemente accesa per seguire i successi degli idoli di quegli anni,
come Milla. Persino la voce fuori campo, che interviene a narrare
la vicenda, imita i vezzi dei radiocronisti che commentano le partite di
calcio, a sancire l'influenza nell'immaginario collettivo dei giovani
abitanti della Guinea di mode prese in prestito dai colonizzatori. Ma ciò
non è sufficiente per sradicare del tutto la cultura originaria o per
perdere il rispetto nei confronti di riti arcaici. Ecco allora che i
giovani si rivolgono allo sciamano per sacrificare un galletto che dovrà
dare forza a Bandian e assicurargli così di diventare un asso del
pallone. Eppure, quando si tratta di dare fiducia ad un medico per tentare
di guarire la madre, il piccolo non si fa scrupoli e sceglie la dottoressa
bianca di "Médecin Sans Frontiéres",
la stessa a cui affiderà i suoi risparmi nella speranza di potersi
acquistare un vero pallone di cuoio. Isabelle sarà la prima a dare una
mano al ragazzo, regalandogli l'oggetto agognato, ma sarà anche l'ultima
ad approvare la sua scelta, perché lo sottrarrà al villaggio, alla sua
famiglia e alla sua terra.
Questa schizofrenia bordeline, sempre presente nel mettere in scena
contemporaneamente l'attaccamento alla tradizione e la naturale apertura
all'occidente, rappresenta la cifra evidente di una attuale condizione di
spaesamento: l'identità africana incarna queste due facce di una stessa
medaglia e il pregio del film consiste nel mostrarcele entrambe, senza
privilegiarne una a scapito dell'altra. Sono compresenti nella società,
fanno ormai parte della storia contemporanea di questa nazione, che é
capace di benedire con gli antichi rituali un figlio, che si appresta a
trovare il proprio «pallone d'oro», da calciare a piedi nudi,
per se stesso e per dare lustro al suo popolo.
IL
REGISTA CHEICK DOUKOURÉ
È nato nel 1943 a Kankan in Guinea. Dopo gli studi a Conakry, nel
1964 parte per la Francia dove, nel 1968, ottiene una laurea in
lettere moderne a La Sorbonne. Nel mondo del cinema entra come
attore nel 1971 e nel 1986 come sceneggiatore del film Bako,
l'autre rive di Jacques Champreux.
Nel 1988 collabora con Marco Ferreri per la sceneggiatura di Come
sono buoni i bianchi. Nello stesso anno
gira un documentario e il cortometraggio Baro, le lac
sacré. Realizza il suo primo lungometraggio nel 1991 con il
film Blanc d'ébéne. Nel 1993 esce la sua seconda opera Le
ballon d'or. |
"Per
toccare un largo pubblico africano, io devo girare i miei film in
francese, ma é un coltello a doppia lama: in Guinea la gente non
va a vederli! È
un fatto: gli africani preferiscono vedere i film nella loro
lingua originale. D'altro canto rifiutano anche i sottotitoli
perché non li amano o perché non vogliono leggere, li detestano
persino gli avvocati, gli insegnanti e gli studenti".
(Cheick
Doukouré)
|
CURIOSIT¡
ABOUBACAR
SIDIKI SOUMAH (Bandian)
È un ragazzino famoso presso
le bidonville di Conakry, dove tutti lo conoscono con il
soprannome "Zico" in omaggio al grande calciatore brasiliano. Dirige
una squadra di calcio nel suo quartiere, nonostante sia il più piccolo.
Per fare il film ha dovuto piegarsi alla disciplina: imparare il testo,
mangiare e andare a dormire a orari regolari.
SALIF
KEITA (Karim,
l'allenatore)
Nato nel 1946 a Bamako nel
Mali. Nel 1964, a 18 anni, ottiene la sua prima licenza per giocare nel Réal
di Bamako e diviene un eroe nazionale facendo due goal alla finale di
coppa del Mali. Nel 1967 lascia il Mali per il club Saint-Étienne. Riceve
il primo Pallone d'oro Africano nel 1970. Nel 1972 lascia il Saint-Étienne,
sollecitato dai più grandi club, e l'Olympique di Marsiglia lo
ingaggia. Lascia la Francia nel 1973 per il Valenza, dove resta fino al
1976. Dal 1976 al 1979, gioca con lo Sporting di Lisbona. Nel 1979 il
Boston lo ingaggia e in questa squadra termina la sua carriera nel 1981.
In qualità di giocatore professionista ha fatto 242 goals.
Il
secondo film della rassegna, A Karim na Sala, girato da un maestro
della cinematografia africana, Idrissa Ouédraogo, é una fiaba da
gustarsi abituando lo sguardo a esplorare poco alla volta i singoli
dettagli che emergono dalla savana e vengono a occupare l'inquadratura,
restituendo colori, atmosfera, poesia e musica, squisitamente
autoctone.
La storia dell'amicizia che lega Karim e Sala, i giovani protagonisti
appartenenti a due diverse classi sociali, è altrettanto simbolica come
quella di Bandian, con la differenza di non concedere intrusioni
all'esterno. La specialità del regista consiste proprio nel ricreare
microcosmi filmici che sembrano trarre linfa vitale dalla tradizione, al
punto tale che si direbbe finiscano con lo svolgere, forse indirettamente,
anche la funzione di tramandarla o almeno di perpetuarne il ricordo: un
cinema "interiore" il suo, che ha il pregio di essere apprezzato
anche all'estero, seppur con il rischio di etichettarlo soltanto con
l'aggettivo esotico.
Karim condivide
con Bandian anche l'esperienza del carcere, oltre al consueto sfruttamento
del lavoro minorile, necessario per poter sopravvivere nella miseria più
nera: li accomuna e rende solidali nella fiction una buona dose di
fortuna, che porterà il primo a riconoscere nell'incontro con Sala la sua
ancora di salvezza (affettiva ed economica: il ragazzo potrà lasciare il
villaggio per andare a studiare), mentre il secondo trova in un pallone di
cuoio il proprio "aiutante magico".
Il
linguaggio filmico di Ouédraogo, pur utilizzando una sintassi semplice ed
essenziale (e forse grazie proprio a queste scelte espressive, rese
necessarie anche dalla mancanza di fondi e sovvenzioni), è in grado di
raggiungere esiti poetici tramite l'inserzione improvvisa di siparietti
onirici e surreali, che ben si incastrano all'interno di una narrazione
per lo più lineare e sequenziale.
L'episodio che riporta in scena e in vita il padre di Karim, uscito per
una battuta di caccia (narrata dal figlio all'amica in un rapido
flashback), da cui non ha mai fatto ritorno, ne é l'esempio più
evidente: sedotto da un djin, spirito della savana (vedi anche Buud Yam), che ha le fattezze di
una bellissima giovane ammaliatrice, il padre compare all'improvviso,
verso la fine del film, come se nulla fosse. Dichiara di aver perso la
ragione, girovagando senza una meta precisa, perché vittima di un
incantesimo maligno. La digressione favolistica non viene a gettare
scompiglio nella vita dei personaggi, si direbbe anzi che questo universo
parallelo sia sempre stato presente o almeno percepito come tale, per cui
non viene vissuto in antitesi alla realtà. Anche in certa letteratura africana non esiste distinzione tra fiaba e realtà, tra sogno e veglia: tutto ciò comporta un identico linguaggio utilizzato per amalgamare la linearità del racconto, che in questo modo non subisce salti di registro. Questo coinvolge anche le modalità di organizzazione dello spazio interno all'inquadratura, costantemente riempito da movimenti e azioni, che seguono linee di fuga non occidentali, ma ben radicate nella tradizione africana: proprio questa organizzazione dell'inquadratura affranca entrambi i film dai condizionamenti europei caratterizzandoli come africanialmeno nelle movenze, oltreché in quella particolare luce che inonda lo schermo. Tale constatazione rende
giustizia alla frase di Mambety scelta per introdurre la rassegna: il
cinema é un'arte meravigliosa che ben si adatta alla visione del mondo
offerta da questi registi africani, poiché diventa un canale espressivo e
al contempo un'arma culturale capace di tradurre in immagini modi di
vivere e di sognare, altrimenti relegati all'oblio.

A
KARIM NA SALA di Idrissa Ouédraogo
Regia
e sceneggiatura: Idrissa Ouédraogo - Fotografia: Pierre Laurente Chenieux,
Dominique Perrier - Musiche: Miriam Makeba, Ibrhaim Abdullah, Gwem, Ramon
Cabera - Suono: Christian Evanghelou - Montaggio: Dominique B. Martin,
Emanuelle Dehais - Interpreti: Noufou Ouedraogo, Roukieton Barry, Sibidou
Ouedraogo, Hyppolyte Wangrawa, Omar Coulibaly, Thiombiano Issaka Origine:
Burkina Faso, 1991 - Durata: 96'
Distribuzione: COE
Dal
fascicolo distribuito dal Centro Cinematografico Culturale L'Incontro di
Collegno:
"Ouédraogo,
dopo Yaaba e Tilai realizza A Karim na Sala. Il
regista mette in discussione percorsi già ribaditi, cercando nuove forme
nelle quali confermare il discorso avviato con i precedenti lavori. Ecco
dunque un progetto televisivo, co-prodotto dalla rete francese Fr3 e da
quella tedesca Zdf (che l'ha mandato in onda in quattro puntate: La
Rencontre, Le Retour au village, La Fugue, Les Retrouvailles), girato in
16mm e poi trasferito su 35mm.
Nel film Ouédraogo narra le vicende dei
due adolescenti Karim e Sala, interpretati da Noufou Ouédraogo e
Roukietou Barry, il ragazzo e la ragazza già protagonisti di Yaaba.
Si incontrano lungo una strada di campagna, diventano amici e complici di
giochi e avventure vissute fra la brousse e la città, con le sue strade che
riportano a Ouagadougou, Ouaga deux roues.
Ouédraogo li fa viaggiare,
anche in treno (mezzo raro da vedere nel cinema africano), in un procedere
mai faticoso che potrebbe durare all'infinito, la durata di una vita,
fra segni del realismo e del fantastico, e apparizioni improvvise (il
ritorno inatteso del padre del ragazzo).
Il giovane Karim,
tornando al villaggio con in braccio un cerbiatto, incontra Sala e in
segno di amicizia le regala l'animale. La vita di Karim non é facile
accanto al patrigno, lo zio, che secondo la tradizione ha preso il posto
del fratello scomparso misteriosamente nella savana. Oltre ad una
difficile situazione familiare, Karim sopporta molti soprusi. Un giorno al
mercato, dopo essere stato derubato, corre all'inseguimento dei ladri,
ma la polizia lo ferma e lo arresta ingiustamente.
"I
due bambini di Yaaba ritornano sullo schermo con un piccolo cerbiatto,
regalo di Karim a Sala che voleva acquistarlo. Lui é povero, della
campagna, lei é ricca e della città, e il quarto film di Idrissa
Ouedraogo - dopo Yam Daabo (1986),
Yaaba (1989) e Tilai (1990) - racconta i loro incontri, le
loro separazioni e finalmente il loro ritrovarsi in un continuo viavai tra
le famiglie, i luoghi, gli ambienti, la savana e la strada, la libertà e
la prigione (dove Karim viene rinchiuso per un po' di tempo). C'è in Karim
e Sala, una volta ancora, la tenerezza vigile di Ouédraogo per i
ragazzi, il suo sguardo incisivo rivolto verso gli adulti, la sua
disinvoltura nell'iscrivere gesti e comportamenti in un vero spazio -
qui urbano più che naturale. Tra i due ragazzini c'è un sentimento
misto tra gioco e amicizia amorosa; tra tutti i personaggi e il loro
ambiente c'è, per metà, la banalità del quotidiano, per metà,
immaginario e soprannaturale. Ma Ouédraogo non passa da un universo
all'altro, da un registro all'altro: tutti i temi e le modalità del
suo film sono strettamente legati in una stessa cronaca. Cronaca
vagabonda, un po' allungata a volte, ma in cui ogni tappa rappresenta un
momento privilegiato negli itinerari che si incrociano dei due bambini,
che si scoprono nello stesso momento in cui comprendono il mondo che li
circonda".
(Jacques Chavallier, Jeune Cinema, n. 209, 1991)
"Uno
degli aspetti piacevoli di vedere un film di Ouédraogo è di immergersi
in un mondo che è il linguaggio sereno delle sue opere. La lunghezza
delle sequenze produce sorprendenti effetti di straniamento. È il primo
passo verso una strada di sottile affabulazione. Il racconto ha il sapore
di una fiaba, i personaggi hanno quasi un'aureola. Sono trasparenti,
perfettamente limpidi. Limpidoè il loro sguardo, cristallini i
movimenti. I volti esprimono una scelta estetica radicale che permea tutto
il visibile. Il ritmo ha uno stile un po' sonnambulo. Armonia dello
sguardo, serenità del racconto, placidità delle immagini, fusione
armoniosa del diegetico. Karim e Sala fanno pensare ai personaggi
truffautiani. Sono magri come Jean Pierre Leaud, quindi leggeri; quando
camminano sembra che sfiorino il terreno, quando spostano lo sguardo
sembra che tutto il mondo che li circonda si muova con essi. Il loro
sguardo diventa il nostro. I due protagonisti si muovono in un meccanismo
di fatale incantamento. Ogni gesto è espressione di un sincero sentimento
di gioia, di affetto per l'altro. E il mondo intero é in sintonia con
Karim e Sala, sia che venga ritratto un contesto di città o di campagna.
L'universo è sempre lo stesso, regolato dalle stesse coordinate, le anime
dei personaggi, che sono pure i colori del cielo, ma anche la polvere
delle strade, il verde delle campagne, perfino la prigione in cui Karim
viene rinchiuso"

"La
tecnica del cinema, dalla precisione delle riprese a quella
dell'audio, non è,
a mio parere, importante come lo sguardo con cui l'autore,
attraverso i suoi film, vede il mondo, che poi é quello che
differenzia un regista dall'altro.
Anche a prescindere dal risultato finale. Questo discorso può
essere importante per noi africani per spingerci sempre
di più verso un'indipendenza dal passato della colonizzazione che
aveva imposto una negazione della nostra cultura
con la forza" (Idrissa Ouédraogo) |
IL
REGISTA IDRISSA OUÉDRAOGO
Nato
a Banfora (Burkina Faso) nel 1954. Dopo aver studiato cinema a
Ouagadougou e Kijev, si diploma all'IDHEC, scuola di cinema
parigina. Appartiene alla nuova generazione di cineasti di
formazione europea, determinati a guardare l'Africa con
sentimenti e forza espressiva pienamente africani. Il suo modo di
narrare é fortemente meditativo, volto a proiettare sullo schermo
le modulazioni espressive contemplative del modo di raccontare a
voce tradizionale: ritmi rallentati, volti e paesaggi che si
visualizzano con immagini essenziali, inserite in inquadrature di
un rigore compositivo semplice e incisivo. Debutta nel 1987 con Yam
Daabo, mettendosi in luce come uno dei più interessanti
autori del cinema africano. Tutto il suo cinema affronta il
contrasto fra tradizione tribale e modernità, come dimostrano Yàaba
(1989), che racconta l'amicizia fra un'anziana emarginata e un
gruppo di bambini, e Tilai
(1990), sulla legge della tradizione che si abbatte sulle persone
senza concedere spazio ai sentimenti e dell'onore. In Afrique,
mon Afrique (1994) affronta il dramma dell'A.I.D.S. Negli
ultimi anni ha diretto Le
cri du coeur (1996) sul problema dell'immigrazione, e Kiny
et Adams (1997). Ha partecipato a 11'09''01
(2001).
|
Nei cortometraggi d'esordio
Ouédraogo affronta
temi delicati, come la carenza delle strutture sanitarie (Poko), l'esodo
rurale nel Sahel (Tenga), il lavoro della gente comune (Les
Ecuelles, Issa
le tisserand). I lungometraggi Yaaba, TilaÔ e Samba
Traoré, premiati ai
festival di Cannes e Berlino, segnano la sua affermazione internazionale.
Kini et Adams, il suo ultimo lungometraggio, é il primo girato da Ouédraogo
in cinemascope, in lingua inglese, e in Africa Australe (Zimbabwe).
Idrissa Ouédroago introduce uno sguardo "interiore" nei generi
della commedia, il dramma e la tragedia, il cinema occidentale e di
suspence. Reinventa storie di stampo classico nello spazio di campagne e
città africane e europee, appassionandosi alle vicende dell'essere umano
e descrivendo anche le situazioni quotidiane con un'inesauribile libertà
figurativa.
UN
PO' DI STORIA DEL CINEMA AFRICANO
Il
primo film realizzato in Africa da un africano risale al 1963, quando Sembene
Ousmane girò il suo primo cortometraggio intitolato Borom Sarret.
Da allora si sono prodotte poco più di un migliaio di pellicole,
realizzate da un agguerrito gruppo di cineasti che ha operato con povertà
di mezzi e tra mille difficoltà.
Obiettivo primario dei
registi africani é quello di restituire ai loro popoli lingua,
tradizioni, storia e dignità che secoli di colonialismo hanno rubato al
continente nero. Malgrado i loro sforzi, nelle oltre 400 sale sparse in un
territorio immenso, si continuano a proiettare in prevalenza film
stranieri di pessima qualità.
Di vitale importanza per la diffusione dei film africani si sono rivelati
i festival del cinema: il Festival Panafricano del Cinema e della
Televisione (FESPACO) che si tiene a Ouagadougou in Burkina Faso, le
Giornate Cinematografiche (JCC) di Cartagine in Tunisia, Rencontres du Cinéma
Africain di Khourigba in Marocco, il Simposio Cinematografico Panafricano
(MOGPAFIS) di Mogadiscio in Somalia. Sempre per la promozione del cinema
africano é nata nel 1969 ad Algeri la Federazione Panafricana dei
Cineasti (PEPACI).
IL
CINEMA GUINEANO
Mamadou Touré (Mouramani,
1953), Alpha Adama (L'emprévu),
Sekou Amadou Camara (Les ballets
guinéens à Paris, 1964), Costa Diagne (Le
feu vert, 1965; Une femme,
1965), Barry Sekoumar (L'assainissement,
1965; Mory le crabe, 1966),
Mohamed Lamine Akin (Le sergent
Bakary Woolen, 1966) sono i pionieri di una cinematografia che partiva
dall'idea di un cinema rivoluzionario. Nel 1970 molti registi furono
arrestati con l'accusa di complotto, tra questi Akin e Diagne. Per un
ventennio la Guinea non ha espresso opere significative. La cinematografia
rinasce negli anni '90, al termine della dittatura di Sekou Touré. I
nuovi autori, oltre a Cheick Doukouré, sono Gahité Fofana, Mohamed Camar,
Mama Keita, David Achkar.
IL
CINEMA BURKINABÈ
Ultima nata tra le
cinematografie dell'Africa nera é divenuta in breve tempo la più
importante per presenza di autori e produzione. Pur essendo dal 1968 sede
del Fespaco ad Ouagadougou, la svolta decisiva alla crescita del cinema
burkinabé fu data dalla presidenza del rivoluzionario Thomas Sankara,
assassinato nel 1987. Sotto il suo governo l'Alto Volta cambiò il suo
nome in Burkina Faso ("Paese degli uomini integri e degni di
rispetto"). Sankara valorizzò il Fespaco e investì nella produzione di
film.
Il Burkina Faso ha dato i natali a due tra i più significativi tra i
registi africani: Idrissa Ouedraogo e Gaston Kaboré. Altri registi
burchinabé sono: Mamadou Kola Djim, René B. Youli, Paul Zoumbara, Daniel
Sanou Kollo, Issa Traore De Brahima, Mustapha Dao, Issiaka Konaté, Dany
Kouyaté, Adama romba, Pierre Yaméogo, Fanta Regina Nacro, Emmanuel Sanon,
Jacob Sou e Jacques Oppenheim.
|