Il conte Dracula, evidentemente, appartiene al passato. Perso nelle sue lontananze transilvane, erge il suo corpo estraneo al divenire del tempo come un baluardo contro i contagi della modernità. Il Conte non sa pensare ad altre relazion di classe che non siano quelle - arcaiche - di servo e padrone. Rivendica con piglio feudale il diritto a concedere lui, e lui soltanto, l´investitura ai suoi aspiranti eredi e (Cristopher Lee sì, Bela Lugosi no). E da stanco curatore della propria immagine chiama in causa parassitariamente il diritto d´autore come regola dissuasiva nei confronti di ogni tentativo di sfruttare la sua immagine in modi che non siano funzionali al suo tornaconto economico (o al suo conto in banca, ammesso che ai vampiri sia possibile - o interessi - aprirne uno). In Transilvania, evidentemente, non è giunta eco delle battaglie sul no copyright. O, se vi è giunta, non interessa a Dracula. Che invece di capire (e sfruttare) il potenziale insito in una pratica selvaggia di produzione post-fordista e di proliferazione post-residuale (clonale?) della sua figura, si abbarbica nella difesa dell´unico diritto (quello d´autore) che uno come lui, abituato da secoli a vivere succhiando il sangue altrui, dovrebbe almeno avere il buon gusto di lasciar perdere. Ma tant´è. Aveva ragione Franco Moretti nel più bel saggio finora pubblicato in lingua italiana sul tenebroso conte transilvano (si intitola "Dialettica della paura" ed è in Segni e stili del moderno, Einaudi, 1987): Dracula è la quintessenza dell´aristocratico parassitario. Il terrore che suscita presso i lettori ottocenteschi del romanzo di Bram Stoker esprime la paura della borghesia del secolo scorso di fronte all´eventualità di un (eterno?) ritorno dell´aristocrazia feudale. Cioè di quella classe che vive senza produrre, che possiede manieri isolati e che si nutre del sangue degli altri (dei suoi servi?). Non a caso Karl Marx che sognava di liquidare la borghesia così come la borghesia ambiva ad eliminare l´aristocrazia, spostava proprio sul ceto borghese i tradizionali attributi del leggendario conte transilvano: «Il capitale è come un vampiro, il capitale è lavoro morto che succhia sempre lavoro vivo, e più ne succhia più si ricostituisce». Succhiare. Ricostituire,. Ricostituirsi succhiando. Dracula, nella sua lettera di protesta contro il libretto di Edgardo Franzosini che parla di lui e dei suoi eredi hollywoodiani, mostra di non tollerare proprio questo: che altri faccia ciò che lui fa già da sempre. La sua lettera è una sorta di rivendicazione al monopolio del vampirismo. Solo io posso. Solo io. Oggi come ieri. Nell´epoca delle gazzette ottocentesche come in quella dei surgelati (attenzione: l´unico segno di modernità che Dracula lascia intravvedere nella sua lettera riguarda proprio un cibo che - come lui - è gelido e freddo, resiste al tempo e sopravvive lontano dalla luce e dal calore del sole: affinità elettive?). Al libro di Franzosini rimprovera ad esempio di richiamarsi a topoi sfruttatissimi, mostrando di non capire come proprio gli stereotipi e i luoghi comuni siano il fondamento di quella cultura di massa che egli avversa e contro cui esterna, pur sapendo - al fondo - di essere egli stesso proprio uno stereotipo e, per l´appunto, un luogo comune. Non ci siamo. Sono piuttosto altri gli elementi da rimproverare a Franzosini e al suo libretto (che è comunque prezioso, se non altro per il colore rosso-emo-coagulato della copertina). Franzosini racconta la storia (in forma dipseudo biografia) della metamorfosi di un attore in vampiro. Rilegge a rebours la vita di Bela Lugosi come un fatale percorso di appressamento a quella figura mitologica in cui a poco a poco si trasformerà (o che finirà vampirescamente per impossessarsi di lui). Tutte le principali tappe della vicenda storica di Bela Lugosi, dalla melanconica giovinezza magiara alla migrazione negli States all´inizio degli anni ´20, dalle prime prove teatrali sul testo di Bram Stoker all´approdo a Hollywood nel 1925 via via sino all´incontro con Tod Browning per il Dracula del 1931 - sono rilette da Franzosini come segni di una fatalità che a poco a poco dipana la sua trama. È il destino che guida il gioco: sia Bela Lugosi che Dracula (l´attore e il personaggio sono solo marionette. Automi. Pupazzi. Un corpo reale e una figura virtuale che un demiurgo fatale utilizza per generare l´ibridazione. O l´incarnazione. C´è un´idea dell´attore non sempre coerente nelle pagine di Franzosini: da un lato egli sostiene spavaldamente la tesi della metamorfosi (il che significa inevitabile assunzione di un´eredità che pare essere al contempo genetica, storica e geografica), dall´altro lato invoca Diderot e il suo paradosso sull´attore per collocare Bela Lugosi nella categoria degli attori mediocri per troppa sensibilità: «Lugosi - scrive - non possiede la tete froide, la testa fredda. (...) Il personaggio è disceso autoritario e tirannico, lo ha abitato, lo ha posseduto, si è nutrito di lui. Quando recita la parte del vampiro, Bela recita ormai la parte di se stesso». Più che dalle parti di Diderot, sembra di essere nei pressi di quelle teorie che vedono la recitazione dell´attore come forma di ¨possessione¨ o di ¨trance¨. O addirittura nei dintorni di un ¨metodo¨ post-stanislavskiano applicato con eccesso di parossismo. Solo che non c´è metodo, in Bela Lugosi. C´è, almeno a stare a Franzosini, solo destino. ¨Per Bela Lugosi l´abiezione è una condanna¨, sentenzia il nostro. Sarà. Ma forse sia Franzosini che il Conte Dracula che scrive al manifesto dovrebbero andare a rivedersi l´Ed Wood di Tim burton: dove Martin Landau ridà vita all´attore Bela Lugosi facendo con lui - non più attore ma personaggio - ciò che né Franzosini né Dracula riescono a fare: ridare dignità alla miseria, rendere interessante l´idiozia. Che è poi quello che da sempre fa Hollywood. Nonostante le resistenze di Dracula, e gli arabeschi o i ghirigori di chi vampirizza il cinema per farne solo letteratura. |
(Gianni Canova su Alias n°1 - 13 giugno 1998, pag.20)