Mi trovo di nuovo a ripescare registi e opere già citate: Carax, diceva Marcello prima di Locarno, permise con Mauvais Sang di ricominciare a credere nelle capacità di rinnovarsi del cinema europeo e francese in particolare dopo che Diva aveva imposto di prestare attenzione anche a Beineix, di cui ho amato moltissimo anche Betty Blue e ho persino apprezzato il bistrattato La Lune dans le Canivaux, non foss'altro per la presenza della mia coetanea e sogno muliebre di un'intera generazione (come testimonia Paolino Rossi), Nastassja Kinski (peccato che da Roselyn e i leoni si sia perso). A proposito di tanta figlia: Herzog fu citato solo en passant, ma molto di ciò che siamo lo dobbiamo a Fata Morgana, Herz aus Glas, La ballata di Storszek, Anche i nani hanno cominciato da piccoli e soprattutto Aguirre e Nosferatu.
E allo stesso modo è opportuno non dimenticare tra i padri, ben prima dell'omaggio wendersiano di Tokyo Ga, Ozu e Kurosawa, per arrivare prima di Takeshi regista (già apprezzato in Furyo) ai Tetsuo,. Passando attraverso Imamura e Oshima.
Con Carax, Beineix si affacciarono anche Rochant (Un mondo senza pietà), ma soprattutto Besson (Subway insieme a garage-loft del postino di Diva fu l'ambientazione europea dei primi anni '80 che trovai più innovativa

Sempre Marcello citava la factory di Coppola: difficile prescindere dalle innovazioni del regista di La Conversazione (candido questa pellicola come la più intrigante storia autoreferenziale, laddove questo aggettivo non è un insulto, ma uno degli elementi che andava elencando Alberto tra gli aspetti che hanno caratterizzato il decennio infame) e credo che Un sogno lungo un giorno marchi l'inizio, prima ancora di Blade Runner, del nuovo gusto post'70s, dopo di che Hollywood non sarebbe più stata la stessa, oltrepassando anche l'esperienza degli Indiana Jones e Star wars: infatti da lì crescono i Zemeckis, Dante, Kasdan. Non si possono non apprezzare i loro lavori, sono parte integrante della nostra vita, non sono più solo rappresentazioni del reale, ma rimeditazioni sul reale, che lo condizionano, lo trascendono e deformano la realtà su cui vanno ad incidere, presentificandola e storicizzando come fa Zemeckis non tanto con i Back to the Future, quanto nel lavoro di Forrest Gump, equiparabile al nostro tentativo: individuare gli episodi clou di quella che è stata la storia del costume degli USA degli ultimi quarant'anni, rappresentarli apparentemente in modo neutro e poi scardinarli dall'interno (The big Chill segue lo stesso criterio e solo un po' più smaccato è il metodo di Dante), lasciando che si disfino sotto i nostri occhi per analizzarli meglio attraverso un minimo spostamento temporaneo dell'adesione alla storiografia ufficiale.

Altro autore che ha forgiato il gusto dei cinefili è Landis, ormai poco citato, ma i primissimi (Slok, Kentucky Fried Chicken ed i film con Belushi) sono pietre miliari dello sberleffo mondiale (con tutto il rispetto, la parodia di 2001 in Slok è irresistibile e i ruoli cammeo affidati ad altri fari come Cronenberg in Tutto in una notte sono daapplauso)

Ma tra la fine dei '70s e la metà degli anni reaganiani ci fu un cinema che mi attirò moltissimo: ormai dimenticati, alcuni giovanissimi ammantavano le loro storie molto dark, tristi, metropolitane, infarcite di dialoghi, che rimandavano altre narrazioni in un intreccio di storie noir e punk; si ritagliarono il successo tributato da persone come Guido Chiesa che raggiunse l'altra sponda dell'Atlantico per lavorare con Oblowitz (King Blank, Minus Zero), Benning (Him and Me), Jarmush (il più fortunato, ancora "vivo" e apparso in opere di un altro mito, il Paul Auster di Smoke con Wayne Wong regista della sua sceneggiatura, ma questa è storia recente Ž e guai a chi la censura); presso quei giovani punk annovererei Slava Tsukerman già ricordata da Marcello (Liquid Sky precorreva lo squid di quell'altra inarrivabile organizzatrice di
sequenze di K.Bigelow).

Demme mi fece rilevare che poteva esistere un'etichetta per quel tipo di film in cui la vita di un comune fessacchiotto cambiava e si svolgeva su binari di assoluta selvaggeria in seguito ad un piccolo tassello spostato: una sorta di realismo deformato che ancora adesso appare in certo cinema americano dove si innescano situazioni ribalde in mezzo al più piatto conformismo in seguito all'intrusione di un minimo dettaglio impazzito ed incontrollabile. Quest'ultimo penso sia il motivo per cui amiamo After Hours di Scorsese o Wild Thing. L'età dell'innocenza è il miglior film secondo me tra quelli che hanno messo in scena il senso di sudditanza degli americani verso la cultura (a loro preclusa geneticamente) ed i meccanismi che hanno dato luogo al provicialismo di cui ancora adesso soffrono (oltre ad annoverare i più raffinati titoli di testa che mi ricordi)
Ma davvero militante, come le vecchie Black Panthers (a proposito: da inserire obbligatorio nei programmi di storia dei maturandi il film di Van Peebles), fu Lola Darling e poi quasi tutti i film di Spike Lee, irriducibile, schematico, ma proprio grazie a questo inattaccabile, inossidabile la sua missione di bandiera del cinema afroamericano. Massimo rispetto e anche ammirazione per alcune soluzioni registiche e anche per quella mano di Malcolm X che indica la direzione scattando in primo piano: retorico, ma efficace.
Un aspetto diverso, ma preponderante negli anni ottanta fu il ritorno del film di genere e nessuno aggiornò i generi in modo più originale di Walter Hill (dal western al film di guerra fino all'operazione scadente del musical di Streets of fire, dove peraltro c'erano alcune intuizioni relative al decor del set intriganti). Lui pure sparito. A proposito di genere: che dire di John Waters e di come si scardinano dall'interno tutti i più vieti e retrivi luoghi comuni del provincialismo mondiale (il provincialismo è uguale dovunque: nella Francia dell'orribile La vie de Jesus, come in Virzì, nelle cittadine di Wes Craven o nelle comunità ridicolizzate da Divine). Nuova candidatura: ancora di più di Serial Mom fu efficace il primo e credo unico film in odorama, Polyester stronca ogni benpensante sotto ogni aspetto, perché non vuole dimostrare nulla, semplicemente distrugge con scherno.

Molto meno retorica, più colta, precisa nelle citazioni e ancora di più nella ricostruzione filologica (ad esempio Caravaggio non fu mai omaggiato nella sua ossessione per la matericità del colore come nel film a lui dedicato), nonostante tutto, è l'intera filmografia di Jarman: da Sebastiane in latino all'urlo disperato di Last of England, fino al doloroso Blue, passando per l'ostico e profondissimo Wittgenstein.
Sempre rimanendo in Europa ebbi una vera infatuazione per Jos Stelling a partire dal suo Scambista. E' un misconosciuto regista olandese (credo) che fece anche un omaggio a Rembrandt, che ancora più che lo scambista è uno studio preciso delle luci della pittura fiamminga e del seicento olandese. Inoltre fece Marika degli inferni, maldistribuito capolavoro bruegheliano. In assoluto il più attento ricostruttore delle suggestioni iconiche provenienti dalla pittura: supera Greenaway (senza avvicinarsi alla sua erudizione, né arrivando al suo estro) per la meticolosità con cui ricrea quelle atmosfere pittoriche.
Proseguendo con l'Europa: dedicai parte della mia tesi a Almodovar, perché pensai di cogliere la possibilità di innovare il melodramma insufflando il dna della movida in esso, ma da Tacones Lejanos in poi la sua produzione si è come annacquata e lo sberleffo non incide più. Certo che La ley del deseo fu con Matador e Que hecho yo para merecer esto una rivelazione; per non parlare della carica di Pepi Luci Bom y otras chicas del monton Ancora europei: bella la trilogia di Percy Adlon incentrata sulla figura di Marianne Sagebrecht. Fine a se stessa, ma interessante sia tecnicamente, che come atmosfera di sospensione, che è forse la cifra di quegli anni: lo sgomento, il momento successivo allo sbigottimento e l'attesa di scovare una via per ricominciare.
M'incantò anche l'unico film che sono riuscito a vedere di Pavel Lounguine, il cinico e disperato Taxi Blues, ma poi non seppi più nulla di lui.

Manca il cinema italiano?

Odiai fortemente il romanticismo di Francisca, ma poi recuperai la maggior parte di De Oliveira, di cui Viaggio all'inizio del mondo credo che sia un capolavoro: se esistesse una sessione dedicata al ricordo, ritengo che ne debba essere vincitore questo delizioso film.