Gli occhi dei bambini
medio-orientali, di cui a lungo si è occupata questa rubrica nelle puntate
precedenti, sapevano ancora accogliere la tristezza e l'orrore circostante
per restituire uno sguardo innocente, capace di sorridere di fronte a un
palloncino bianco o di sognare, inseguendo le piste tortuose di pesciolini
rossi custoditi nella vasca di casa. Non si può dire altrettanto per i
giovani protagonisti delle vicende attuali, non solo cinematografiche: cosa
ha percepito lo sguardo di un bambino sopravvissuto alle macerie della
scuola di Beslan che non ricorda nemmeno più il suo nome, perché le
efferatezze a cui ha assistito hanno oltrepassato la soglia del dolore e
allora non esiste memoria del presente o del passato e anche il futuro è
scomparso dal suo orizzonte? Questi piccoli sopravvissuti, ridotti a
simulacri degli uomini o delle donne che non potranno più essere, morti
viventi pur restando in vita, saranno costretti a vegetare o al peggio ad
arruolarsi a loro volta, perché un fucile, come un tempo una clava, lo può
maneggiare chiunque, anche chi ha la memoria guasta e il cuore fatto saltare
dal terrore, unica condizione che fa da denominatore comune alla loro
esistenza? Ma quanto dolore può incamerare lo sguardo di un bambino? Esiste
ancora una frontiera, che sarebbe lecito non fargli varcare per
procrastinare la disperazione di essere stato messo al mondo?

Nel
film Piccoli ladri della
regista iraniana Merziyeh Meshkini, presentato in concorso all'ultima
Biennale di Venezia, si direbbe che questa linea di demarcazione sia ormai
superata, perché nell'inferno delle macerie di Kabul, la capitale afghana
presidiata dai carri armati Usa, i due piccoli protagonisti già vivono, per
quanto spaventati dall'idea che si possa finire in una condizione analoga
anche nell'al di là: «L'inferno è un buco nero senza fondo dove si
viene bruciati dagli angeli». Eppure imparano ad attraversarlo con
straordinaria dignità, deambulando da un carcere all'altro: il primo
detiene il padre, un ex talebano in prigione per motivi politici (poi
deportato a Guantanamo), il secondo la madre, considerata 'adultera' e
quindi in attesa di condanna a morte per lapidazione. Marchiata
dall'intera società come sgualdrina, solo perché dopo cinque anni di
assenza del marito, impegnato a difendere la causa di Allah, non sapendo
come fare a mantenere se stessa e i figli, la donna ha fatto l'errore di
risposarsi, per di più con un uomo che l'ha resa vedova nel giro di poco
tempo. Ricomparso il primo marito, sarà proprio lui a condannarla alla
detenzione, senza preoccuparsi della sorte dei due ragazzini, costretti a
loro volta a diventare 'prigionieri di notte', elemosinando ospitalità
presso il carcere dove è segregata la madre.
L'asilo durerà poco, perché la prigione - si sa - non è un albergo e
si ha diritto di esservi rinchiusi solo se si è commesso un reato... è
sufficiente un furtarello, l'appropriazione indebita di beni altrui, per
vedere finalmente aperto quel portone che, mettendo fine alla libertà,
viene al contempo a determinare una condizione particolare dell'individuo,
colpevole per aver infranto la legge. I due ragazzini iniziano a desiderare
di diventare ladri nella speranza di poter riabbracciare la madre, ma le
carceri sono infinite, vengono edificate anche in mezzo alle macerie e alla
degradazione assoluta, per cui le probabilità di finire nel medesimo si
riducono a zero.
Che l'inferno sia davvero un buco nero, i due ragazzi lo sperimentano fin
dall'inizio, quando si industriano per salvare da un'orrenda pira un
barboncino bianco, inseguito da una banda di coetanei inferociti, armati di
fiaccole ardenti, divertiti all'idea di compiere un falò totemico, forse
perché il loro immaginario è alimentato soltanto da scene violente, in più
identificano nell'animale simboli occidentali, maschere demoniache dietro
alle quali può nascondersi Bush, come si può evincere dagli epiteti con
cui incalzano la povera bestiola.

Rimasto
intrappolato in una buca, bersagliato da ogni parte da bastoni infuocati, il
cagnolino viene tratto in salvo dalla ragazzina, che finisce con
l'adottarlo e per entrare in sintonia con lui, a differenza degli adulti
che addestrano cani, enormi come mastini, per abituarli a sbranarsi tra
loro. Memorabile risulta infatti la sequenza dedicata a documentare una
folla di maschi, radunata di fronte al cruento spettacolo di cani che si
affrontano a suon di morsi rabbiosi, incoraggiati dalle grida di giubilo di
astanti divertiti: il sadismo nei confronti degli animali finisce per essere
l'unica risposta possibile, nella capitale liberata, all'occupazione
americana.
Tra il barboncino e la ragazzina nasce un'attrazione reciproca: l'uno
sente di essere stato salvato e decide di non scappare, l'altra trova in
lui un interlocutore a cui poter raccontare le proprie paure, che sono
tante... non solo quelle comuni a tutti i bambini quando si sentono soli,
indifesi e senza la guida di un adulto, ma anche quelle determinate dal suo
essere femmina in una società che rende ancora più difficile la vita a una
piccola vagabonda rispetto al fratello. Ma l'occupazione da parte
dell'occidente non doveva proprio servire a cambiare questa visione
sessista dell'universo?

Seppur
schiacciata dalla paura, intimorita dall'ansia di trovare un tetto per la
notte e un pezzo di pane da scaldare sopra il fumo di carne cotta alla brace
(ma solo per ingannare l'olfatto del cane e spronarlo a nutrirsi), la
bambina affronta la dura realtà esterna con determinazione: il suo sguardo
indomito, spesso severo, non sbaglia un'espressione, non è solo
fotogenica, ma capace di recitare con tale realismo, da risultare più vera
del vero. Anche il fratello non è da meno: dà il meglio di sé quando
reagisce a colpi di sassate al secondino che infanga l'onore della madre;
decide persino di mettersi alla prova, ritornando ad affrontarlo per
porgergli le sue scuse, ma, travolto dagli stessi sentimenti di sdegno, non
potrà esimersi dal raccogliere un'ennesima pietra, per fuggire via,
inseguito dalle urla dell'adulto che lo incita a diventare ladro per poter
sperare di essere accolto in carcere.
I due fratelli tentano a turno di convincere il padre a perdonare la donna,
ma i loro sforzi saranno vani: prima dei colloqui si ripetono reciprocamente
le frasi da riferire al genitore, hanno paura di impappinarsi e cercano
persino di impararle a memoria. Ancora più disperata risulta invece
l'impresa di imparare a derubare, perché ladri non si nasce, ma si
diventa: dapprima sottraggono al macellaio la testa di un bue, ma, anziché
essere inseguiti e consegnati alle autorità, finiscono per farsela sbranare
dai mastini addestrati alla fiera della crudeltà umana; anche lo scippo di
una borsa a una donna con bambino, intabarrata in un burka, non avrà
conseguenze terribili: un sonoro ceffone e un insolito dono di un tozzo di
pane metterà fine al tentativo di improvvisarsi rapinatori maldestri. Solo
la visione di un capolavoro di De Sica, Ladri di biciclette,
sconsigliato anche dall'addetto alla cassa, che vorrebbe dirottarli a
vedere un film americano, insegnerà loro il mestiere: l'arte come maestra
del vivere ha finalmente il sopravvento sulla realtà, per quanto l'intero
film sia girato secondo gli stilemi del più autentico neorealismo. E allora
anche il finale non può essere che un omaggio a un altro film italiano, Roma
città aperta, quando il camion porta via il ragazzino che ha appena
rubato una bicicletta e la sorella con il cane al guinzaglio si mette a
correre, lo insegue, incespica e cade - alla stessa stregua della Magnani mitragliata -
avvolta da un nugolo di ciclisti che stanno avanzando. Stavolta il fratello
finirà in carcere, ma non in quello della madre, mentre la ragazzina
rimasta sola con il barboncino in grembo andrà a bussare per l'ennesima
volta al portone della prigione materna, per qualificarsi come «la sorella
del ladro di biciclette».
