Expanded Cinemah
Ritorno alla questione del DOCUMENTARISMO
dedicato a Ferdinando Birri e Valentino Orsini
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"Rifondazione documentaria "
(a partire da La Dignidad de los Nadies, dopo l'orrido apice neoliberista)

QUE SE VAYAN TODOS
Probabilmente ci eravamo sbagliati, avevamo voluto anticipare Solanas e gettargli in faccia le mancanze di La memoria del saqeo: non è che mancasse l'analisi progressiva di cosa rimaneva sul terreno, come avevamo immaginato di cogliere; non è che "Pino" si limitasse a dare credito a Kirchner (forse davvero un male minore); non è nemmeno che si volgesse esclusivamente a mostrare i giochi di potere, dimenticandosi degli "ultimi". O almeno, era vero che tutto ciò mancava nel film del 2004, ma Solanas si stava riservando di documentare davvero - e quindi doveva attendere ad appostamenti nei luoghi in cui gli individui lottavano per sopravvivere - il Paese autentico (quello che ha fame), senza fare fiction efficaci come Buena vida, ma restituendo direttamente la realtà: Leonardo Di Cesare con bravura ha dovuto spostare su un piano quasi surreale la sua materia per poter fotografare il disagio vero, le situazioni estreme lasciate dal saccheggio, la precarietà di sentimenti derivante da quella dei lavori (un'immediata rivelazione è la riunione nel cortile dei venditori di dolciumi fabbricati "in serie" nella casa espropriata dal padre di Pato, come se fosse quella di una multinazionale, con gli stessi stereotipi e il medesimo linguaggio). Solanas invece racconta direttamente quella vita... e buca il video, dimenticando la camera fissa e pulita del potere, esplorato nel film precedente, affidandosi quasi del tutto a una camera a mano altrettanto popolare dei soggetti che riprendeva.


Mentre ne La memoria del saqeo Solanas era inseguito dagli eventi e si trovava coinvolto, immerso nel tumulto e la sua forza era data dalla documentazione - qualche volta attonita - della reazione popolare al disastro e, seppure per motivi speculari (andare a vedere contro quale vuotezza e arroganza si stava battendo la gente dei "cacerolazos"), metteva in scena anche i politici, i potenti, i notabili... Qui non c'è spazio per i colpevoli della devastazione della Nazione: programmaticamente il regista insegue le storie più significative di ogni ambito che caratterizza il "day after" dell'Argentina ("Quelle che sto per raccontarvi sono le storie dei nessuno"); non è più l'urgenza a costringerlo ai suoi tempi, ma può darsi una cadenza di più ampio respiro, selezionando i racconti in modo che emergano la dignità, le emozioni, le passioni. Non è più la concitazione della situazione che va precipitando a imporre gli spazi da inquadrare per memorizzare il saqeo, ma i luoghi sono sovraccarichi di vita dolente e fiera da perlustrare con calma, indugiando sui volti degli ultimi. E soprattutto è il regista a scegliere, selezionare, inquadrare, montare in modo così coerente da informare alla fine su ciascuna evoluzione di ogni singolo frammento documentato, addirittura con un mascherino che incornicia l'episodio a cui si fa riferimento... una virata di 180 gradi rispetto al precedente lavoro che dal caos traeva la sua forza immediata: qui non solo l'attenzione è frutto di analisi, ma sull'indagine si innesta anche la rimeditazione e il commento, senza per questo rinunciare ai protagonisti e senza finire con il sovrapporsi a loro, bensì lasciandoli sempre al centro ed evidenziando la loro consapevolezza politica e la determinazione a lottare.

Quello che si continua a percepire è la freschezza dell'aggirarsi alla ricerca della storia emblematica, scelta per dimostrare quello che si pensa della Storia; e per questo il regista non rinuncia a collocare queste storie sullo sfondo delle manifestazioni e degli eventi della Storia. L'inizio è un ritmatissimo tamburellare di informazioni "storiche": cartelli, scritte, calendari, giornali e spezzoni di archivio; l'alternarsi di presidenti, dichiarazioni epocali, elezioni, fughe, manifestazioni, lacrimogeni... fino a legare il primo racconto, quello di un Carlo Giuliani miracolato grazie all'intervento di un compagno manifestante proprio a quelle immagini di lotta di piazza e manganellate. E spari sbirreschi. Ecco, da subito, dal primo caso documentato emerge il dato essenziale: la solidarietà tra "los Nadies", che consente di sopravvivere... e di riprendere a lottare, avendo la consapevolezza di non essere soli a farlo.


Incontriamo il protagonista dell'episodio come è adesso, al suo computer in casa e da lì inizia il flashback che rievoca il dramma individuale in cui si rispecchia quello collettivo; alla fine del quale scopriamo ancora ulteriori notizie su di lui, che dànno il senso di una proiezione verso il futuro. Esattamente l'impianto del film: cogliere un istante contemporaneo, vedere come ci si è arrivati e proiettarlo nel futuro, portando sullo schermo l'embrione di come si sta evolvendo la situazione.
Dopo quella prima immagine di normalità, in cui il pacato giovane cita Bardolino di Umberto Eco, sfoglia la rivista letteraria "Parto del Blanco", definisce El perseguidor il miglior testo esistente (e un cortázariano come me non può che approvare), si fa avanti la denuncia che accomuna tutte le polizie del mondo: assassini. Sbirri o prezzolati da De la Rua (cosa cambia?) gli avevano sparato a bruciapelo come a Carlo Giuliani, lasciandolo a rantolare con una pallottola nella testa. Un compagno lo ha raccolto, caricato su una macchina e portato all'ospedale, rianimandolo e accudendolo. Il racconto inizia lì, nella stanza, ma poi si anima introducendo la figura del salvatore, che contribuisce a rievocare la concitazione con ironia e parlandone esattamente dove è avvenuto il fatto... lo scoop vero e proprio è vedere le immagini della sparatoria appena avvenuta e del salvato ancora riverso a terra. Noi non lo sappiamo ancora a questo punto, ma verso la fine di questa epopea, verrà incastonato un omaggio a Diégo, che invece con Carlo Giuliani condivide la fine.
Ora, racconta il film, il giovane ha una vita normale e un figlio.

Mensa nel barrio a 30 chilometri da Buenos Aires, questa è la seconda storia che ne racchiude infinite altre, tutte compendiate dal maestro, figlio di anarchico galiziano, che fuggito di casa giovanissimo (perché non deve essere facile per nessuno assoggettarsi a un'educazione eticamente rigida come quella anarchica, che chiede di essere irreprensibili senza avere figure divine o leggi da rispettare per autoritarismo e non per senso morale) ha imparato sulla sua pelle cosa significa essere un barbone (suo padre gli aveva insegnato che "Nessun lavoro disonora l'uomo"; certo che in taluni casi bisogna lottare perché le condizioni di lavoro restituiscano digità), e poi la vita nel fango di strade che nei giorni di pioggia gli impongono due ore di cammino per raggiungere i bus e arrivare a scuola dove coordina la formazione professionale - ovvero da Eco e Cortázar all'imparare come lavorare in un paese distrutto dal neoliberismo e dal Fmi. Nei giorni feriali... di domenica i ragazzi del suo barrio non mangerebbero perché la mensa scolastica non funziona e allora ha inventato un desco per 130 persone... a casa sua e di Mariela (altra maestra come si faceva una volta... forse a Barbiana), una catapecchia dove si rifugiano gli indigenti, gli ultimi. Los Nadies.
Sfidando la retorica, alla fine, e spostando la telecamera dalle spalle del maestro indaffarato all'inseguimento di una presenza da assicurare in situazioni limite, gli dedica un primo piano insistito, dove non si ottengono rivelazioni, ma frasi anche scontate, però di fondamentale "Resistenza". La funzione del maestro all'interno del film è quella del baluardo apparentemente incancellabile. Quello di cui hanno bisogno 130 famiglie indigenti.

Decía Eduardo Galeano que los nadies (siempre jodidos, rejodidos) eran aquéllos que costaban menos que la bala que los mataba, los pobres que, a pesar de tener todo en contra, seguían viviendo, intentando, esperando.

Tra un episodio e l'altro si infilano sospensioni dedicate a documentare anche l'irrinunciabile momento in cui gli argentini esasperati urlano in piazza la rabbia e la disperazione: sono momenti corali che servono ad allentare la tensione della storia individuale, senza per questo diminuire la denuncia, anzi accentuandone gli aspetti pubblici. Restituendo alla manifestazione di piazza il suo ruolo di condivisione di parole d'ordine e indignazione (curioso come in "indignazione" sia compresa la parola che sottende a tutto: "dignitad").


Ogni episodio è introdotto da un titolo a effetto, da un'immagine iniziale, seguito quasi subito dall'indicazione in basso a sinistra del luogo preciso in cui ci troviamo (introvabile sulle cartine non dettagliate) e del nome del testimone a cui si deve il nuovo racconto edificante. Esemplare.
La donna della pampa che lotta contro le banche a suon di inno nazionale (lo stesso ruido de mil cadenas che risuona in Las Nubes, sempre di Solanas) è scelta perché sicuramente in una condizione di normalità sarebbe stata la tipica borghese schierata con il potere, qui fa la figura di una rivoluzionaria irriducibile: la situazione è talmente estrema che persino lei sembra stupirsi e lo esprime anche questo stupore, quando rievoca i momenti in cui si è trovata a essere paradigma e esempio da seguire per altri malcapitati come lei, mai stati impegnati politicamente e che ora si trovano a resistere all'ingiustizia, cominciando a individuare dovunque essa si annidi, solidarizzando e così riuscendo a evitare le peggiori conseguenze.

Quasi un racconto edificante... in realtà una presa di coscienza seguita nel racconto dei protagonisti, commovente a tratti ma soprattutto determinata e capace di indignare contro il potere e i suoi servi.

Gli ospedali e in particolare uno per tutti, quello dove fece irruzione la polizia, picchiando e arrestando i malati costretti a essere accampati nei corridoi, a lunghe file per qualunque servizio, a esborsi spaventosi; Solanas ha documentato parallelamente il disservizio e l'immoralità di pretendere di far pagare la salute, e la dedizione degli addetti: a lungo intervista belle figure femminili di medici, con l'aria decisa, serissima, disillusa, ma comunque pronte a sottoporsi a massacranti turni e ad appoggiarsi a uno stipite illuminate dalla luce malata che filtra da finestre luride per spiegare la fatica e le storture della sanità argentina, dei subappalti a privati, della privatizzazione e dello smaltimento dei rifiuti di un ospedale. Anche in questo caso emergono titaniche le persone che hanno fatto la scelta di non arrendersi: il titanismo del Movimento, la cui forza derivava dall'urto della massa esasperata documentata nelle riprese concitate de La memoria del saqeo, si trasforma in un'altra evoluzione dello Spirito del tempo che Solanas decide di raccontare: la resistenza singola, nel luogo di lavoro o nel barrio; dalla violenza e distruzione di quella parte più intollerabile della corruzione si sposta l'attenzione sulla calma determinata quotidiana, che tampona le emergenze ma soprattutto consente di sentirsi liberi, utili, sembra serpeggiare una consapevolezza: quella che la fatica profusa per sopperire a mancanze statali (per il saccheggio delle risorse operate da politici infami) può contribuire a rifondare la Nazione su basi solidali.



E vogliamo scordarci del prete minacciato dai mafiosi? A lui hanno distrutto casa e canonica e allora ha capito alla fine che il Dio della chiesa probabilmente non stava dalla stessa parte dove stava lui e ha restituito la tonaca, riprendendosi dignità libertà e vita tutto in una volta. Il suo episodio si intreccia sapientemente, come gli altri che tra loro non smettono di rincorrersi così che continuano a fare capolino anche quando centrale è un'altra storia. La storia del prete si compone di tre sorprese: quando scopriamo che è un sacerdote, perché fino ad allora lo abbiamo semplicemente visto in una cucina a stigmatizzare la forma di mafia presente nel villaggio; quando ci viene mostrata la devastazione derivatagli dal suo impegno; l'ultima ci porta a plaudere alla sua scelta di abbandonare l'abito talare.
Il racconto che lo concerne incentra di nuovo la personalità di un sacrificio che non spaventa, come quello del ragazzo che il video documenta essere stato abbattuto scientemente dagli sbirri, come Carlo a Genova, ma qui la sequenza è evidente e la ricostruzione della sua vita a posteriori, del barrio in cui viveva, le parole della sua compagna non confezionano un'agiografia perché, come per il prete, ma soprattutto per la vedova decisa a salvare la terra dalle grinfie delle banche, è il collettivo, è l'ambiente a testimoniare della genuinità della scelta: tutti questi "eroi" della Storia di Solanas si trovano quasi per caso a decidere del loro destino a causa dell'intreccio della loro con la Storia dei potenti. Le due Storie collidono, ma questi personaggi hanno in comune proprio il loro stesso stupore di trovarsi a fare ciò che, raccontate nel video, risultano essere temerarie imprese titaniche, eppure Solanas riesce a mantenerle su un piano di non banale quotidianità grazie alla costante immersione dei tipaz nel loro habitat.

L'ultimo episodio è quello magistrale: l'apoteosi della resurrezione dal basso: le fabbriche che riaprono per iniziativa degli operai che le gestiscono in prima persona, come la storia del grissinificio girato da Dario Doria in Grissinopoli. Queste storie - misconosciute in Italia - hanno offerto spunti negli ultimi tre anni a molti coraggiosi documentaristi, a cominciare da Naomi Klein con il suo The Take, incentrato su le tre fabbriche simbolo di questa lotta: la Zanon (con un "dueño tan feo" che verrebbe voglia di pestarlo), la Brukman (capostipite dell'esperienza autogestita) e la Forja san Martin, quella la cui lotta si dipana più emblematicamente perché prescelta dalla regista per documentarne il successo.
Sono tre approcci diversi alla medesima materia: nel grissinificio si evidenziano gli aspetti di timore iniziale di fronte all'arroganza delle regole legali che sembrano - e sono - baluardi dell'oppressione, come nel film di Naomi Klein, si sfrutta al meglio la progressione della storia ma senza cercare personaggi accattivanti che incarnino la guida virgiliana nel Purgatorio del lavoro argentino: è il collettivo, l'assemblea che prende le decisioni, la vita privata, i problemi esterni alla fabbrica da rilanciare non compaiono. Si sceglie di mostrare essenzialmente come si possa riprendere la produzione, in che modo i lavoratori si improvvisino manager e riescano molto bene nell'impresa di dimostrare l'inutilità delle strapagate classi dirigenti; tutto è incentrato nell'ambiente fabbrica e non si esce mai da lì. Il film canadese invece indulge volentieri a tratteggiare meglio i singoli, pensandoli - se non come leader, almeno come esemplari - quali possibili anime belle in cui lo spettatore può far scattare più volentieri meccanismi di identificazione: spesso sono descritti nelle loro case e, nell'evoluzione su tre anni di lotte, invecchiano sullo schermo con noi, che in quel modo traiamo la sensazione di avere seguito passo passo le varie tappe, vivendole nella progressione e con i patemi dei resistenti; essenziale e corretto nell'analisi, meno ruvido e pragmatico di Grissinopoli, il film della Klein segue le lotte cercando di non dare a vedere che vi partecipa, ma la telecamera è sempre presente nei momenti della lotta e lascia ai protagonisti anche siparietti per formulare analisi ben collocate in quel momento preciso in cui evolvevano i fatti, ottenendo sia la suspanse su come sarebbe andata a finire, sia la documentazione apparentemente non a posteriori e quindi automaticamente più autentica, capace di catturare sì lo spirito del momento, di cogliere i dubbi e le strategie, ma comunque il montaggio, successivo, non fa che "mettere in scena" il fatto che la troupe "vive" in presa diretta il caso delle fabbriche occupate e poi autogestite, l'espropriazione e gli scontri con la polizia, la ripresa della produzione e gli accordi con altre fabbriche per le forniture; questo è ancor più evidenziato da battute retoriche come "Noi siamo dove sta andando il resto del mondo", oppure la frase che dovrebbe esplicitare ulteriormente l'assunto che sta a cuore agli autori: "L'espropriazione nasce dal basso, non da una burocrazia né è imposta da un soviet".
Solanas invece sceglie decisamente una sola fabbrica e moltiplica le voci, ma non arriva alla forma pura di assemblearismo del grissinificio, perché il suo racconto non è avulso dal resto del film, dalle altre situazioni: è semplicemente quello più emblematico,la summa delle altre solidarietà. Di nuovo, il respiro è più ampio, l'analisi politica non si limita a quello scontro ma lo inserisce nell'intera società e lo fa diventare risposta possibile ai bisogni. Compendia momenti di assemblearismo, con carrellate in fabbrica, esemplificazioni di scelte e minimi momenti di singoli, qualche analisi della situazione, riuscendo a evitare la retorica.

Nel 2004 assistendo alla proiezione de La memoria del saqeo ci chiedevamo se la vera domanda da porre a Solanas durante l'incontro organizzato all'interno della edizione di Cinemambiente sarebbe: "Ma dove sono finiti tutti quegli argentini che avrebbero avuto la forza di inscenare un'altra Comune e adesso sono di nuovo sedati e silenziosi?".
Ecco ci ha risposto con la Dignidad de los nadies.
L'attualità sudamericana propone anche le periodiche rivolte in carcere brasiliane, malraccontate dai telegiornali, svogliati e distratti, riportano le false verità di Globo o propongono le solite immagini di inciviltà quotidiana sui tetti dei penitenziari... ma dentro, denro quei luoghi lugubri e popolatissimi, cosa succede nella quotidianità? Un bel documentario è stato girato da un italo-brasiliano (come Darwin Pastorin, ma ancora in grado di indignarsi) che è riuscito a riprendere, intervistare, mostrare le dolenti condizioni della popolazione reclusa: le malebolge dantesche sono luoghi di villeggiatura al confronto; su questi argomenti ci ripromettiamo di proseguire il lavoro sulle forme del documentarismo... magari cercando anche ispirazione di nuovo in Asia.

In fondo questi documentari militanti non si discostano tanto dall'intento di Tommaso D'Elia nel suo Invisibili, Adivasi, Narmada: mostrare la determinazione degli ultimi andandoli a scovare nel loro quotidiano lottare con i denti contro le storture e i saccheggi del potere centrale. Chissà se le celebrate cinematografie cinese e coreana sono in grado di fare altrettanto per le altre "dighe" delle tigri della Cindia?

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