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Mundo Grua
Anno: 1999
Regista: Pablo Trapero;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Argentina;
Data inserimento nel database: 05-06-2000


Mundo Grua

MUNDO GRUA

"Vile, veramente vile, è chi rifiuta i suoi ricordi" (Elias Canetti)

 

Regia e sceneggiatura: Pablo Trapero – Fotografia: Coby Migliora – Montaggio: Nicolas Goldbart – Scenografia: Andrés Tamborino – Suono: Catriel Vildosola – Interpreti: Luis Margani (Rulo), Adriana Aizemberg (Adriana), Daniel Valenzuela (Tores), Roly Serrano (Walter), Federico Esquerro (Claudio), Graciana Chironi (Madre di Rulo), Alfonso Rementeria (Sartori) – Argentina, 1999, 90’. (Lucky Red)

 

Rulo è uno di quei personaggi poetici, al quale quest’aura è conferita anche dal mestiere che svolge, il gruista. Sospeso a guardare il mondo da altezze inusitate, da dove però non può dimenticare il presente pressante di cinquantenne, il passato di bassista che prometteva ben altro e un futuro forse affidato ad un amore e ad un cambiamento che lo riporti a terra; Rulo soffre di sonnolenza perché ogni notte quando il figlio torna dai propri "giri" lo sveglia e insieme consumano laute cene. Il finale è aperto e colmato dalla malinconia del tango.

Per una volta non si parla di desapareción. E nemmeno di realismo magico: il denso bianco e nero sottrae la magia inchiodandola alla mancanza di prospettive di Rulo che anni fa ha perso qualche opportunità d'incanto e non se n'è reso conto; per ridurre il realismo è invece sufficiente l'atmosfera sospesa che rimanda anch'essa ad un passato perduto universalmente comprensibile, ma lo fa rimarcando gli stadi successivi del baratro, scanditi attraverso singole sequenze apparentemente slegate tra loro, ma che hanno un nesso comune nel fatto che ciascuna colloca il protagonista ad un livello ogni volta più basso. E pure l'immagine diventa più sgranata finché in Patagonia sembra che la fotografia acquisti spessore appiccicaticcio, come una maledizione che avvolge Rulo e i suoi compagni altrettanto disperati.

L'esordio è improntato a dimostrare la tendenza al dileggio del lavoratore sottopagato, l'arroganza dei capetti, l'oppressione palpabile del tirare avanti su un binario morto, cacciati persino da una gru a cento metri d'altezza. Il primo dialogo vede un capocantiere umiliare i due dipendenti di una ditta subappaltatrice con pretesti; poi lo sguardo dall'alto su una città ostile, dalla quale astrarsi, sospendersi, librarsi in alto "come un uccello": la fuga anche da quel che si è stati come unica scappatoia; ultimo scenario è il chiosco di Adriana, misero, ma estremo appiglio per un'esistenza che ha perso il bandolo della propria vita, che senza simbolismi trova un'espressione nelle inquadrature notturne del tugurio ingombro in cui Rulo vive. La stanza è tagliata da lame di luce orizzontali che impediscono qualsiasi prospettiva di sviluppo lineare, inchiodandolo alla sua condizione senza speranza. Il film si compone di tranche de vie caricati di una patina di tristezza dal bianco e nero appesantito dal viraggio su toni cupi, che soffoca la malinconia normalmente associata alla cartolina dell'Argentina: qui non c'è spazio per i bozzetti, se il tango risuona nel finale lo fa per proporsi come emozione originale e non rievoca antichi modi stereotipati di consumare quella musica, che poco ha da spartire con Rulo, bassista di un gruppo rock e tantomeno con suo figlio Claudio, che nella foto da quattordicenne indossa una t-shirt dei Sepultura. Piuttosto si patisce la scelta di frammentare il racconto in tanti comparti segnati dalle unità di spazi, celle che intrappolano lo sguardo bloccato nella vita quotidiana; così soltanto sul terrazzo e lungo la strada verso la Patagonia non si patisce questa costrizione in locali infimi ed in entrambi i casi sono due illusioni destinate a svanire e dunque la luce che si respira in quelle sequenze si trasforma in ulteriore inganno, in spazio sottratto. Ma l'espediente va a detrimento di uno sviluppo lineare del racconto, che si raccorda spesso su sospensioni tra una situazione e la successiva, oppure con montaggi paralleli.

La voracità di Rulo è un'altra sottolineatura, funzionale al racconto - dato che perde il posto da gruista per la pinguedine dalla quale discende una malattia che nel suo nome dickensiano pare un estremo, feroce dileggio: sindrome di Pickwick -: in ogni situazione lo vediamo addentare qualche cibo, più spesso tristemente, talvolta in compagnia del figlio o del compagno di lavoro, in certi casi per occasioni conviviali o per cenette romantiche con Adriana, ultima delle quali funestata dalla aleggiante presenza della trasferta forzata a duemila chilometri di distanza. Una volta in Patagonia la centralità del cibo diventa evidenza del fallimento dell'impresa, che non procura nemmeno i pasti al cantiere: dunque l'assenza di cibo produce con la sua mancanza un altro vuoto esistenziale, preludio del triste lungo viaggio di ritorno al ritmo di milonga.

Come nel romanzo di Dickens anche in questo caso il film non ha una trama, non racconta eventi sensazionali e nemmeno si riconosce un andamento neo-realilsta, si potrebbe inserire in una tradizione picaresca, se non avesse risvolti drammatici per la sconfitta del protagonista al quale sono stati sottratti anche i ricordi; forzando i testi si potrebbe dire che Jingle, il truffatore in Il Circolo Pickwick, alla fine risulta essere la vita: il mundo grua, che è quasi una esclamazione di disappunto per una esistenza grama davvero.

La musica è l'unica soddisfazione, ma non c'è riscatto, perché non riguarda il presente: è incatenata nel passato, un episodio che sembra non appartenere nemmeno alla stessa persona. Ma è l'unico motivo di orgoglio, il solo appiglio per legittimare l'esistenza, per rivendicare una dignità accordatagli nei momenti in cui i suoi coetanei ricordano il bassista dei Settimo Reggimento e canticchiano Paco Camora, il loro hit; persino a Commodoro Rivadavia, che sembra un paese fuori dal mondo, fatto di solidarietà perdenti, di solitarie comunanze ricordano le sue performance. Tuttavia curiosamente demanda sempre agli altri di ricordare quei momenti, Rulo solo in auto con il sindacalista che gli aveva trovato il lavoro in Patagonia, ormai pronto a tornare, ricorda un episodio e poi subito offre la spiegazione: "Con i casini del lavoro io quelle storie manco me le ricordo", davvero si tratta di persone diverse. In quegli istanti di ricordo del successo musicale le luci sono più calde, si azzerano quelle forti lame di luce che tagliano il suo corpo rendendolo quasi mostruoso nei suoi abbiocchi notturni disturbati dal figlio. Ma quei contrasti almeno sono sintomo di un malessere, di una sempre più ridotta volontà di riprovare, che viene meno nell'unica immagine di totale sconforto, quando l'implacabile primissimo piano obliquo nella penombra coglie un singhiozzo, abbattuto definitivamente dal fato avverso nel lontano sud del mondo, un luogo completamente spogliato di ogni traccia di mito e svelato come collettore di estreme speranze destinate a perdersi tra le polverose vestigia abbandonate alla fine del mondo dove Rulo viene spento in quell'immagine scura, senza alcun contrasto di luce, emblema dello sgomento di un'esistenza che non sa nemmeno dove si sia persa.

Proletariato i cui riferimenti sono tutti saltati, con competenze e capacità artigianali anacronistiche, in grado di arrangiare qualsiasi (quasi) oggetto meccanico, ma incapaci di riconoscere uno sbocco per le loro vite alla deriva in un mondo che non riconosce l'abilità (il basso era stato fabbricato da un artigiano, ma "non è un fender"). Persino succhiare il mate non è consolante. Nemmeno l'arrivo inatteso degli amici a duemila chilometri di distanza su un bolide privo di vetri, rumorosissimo e scalpitante riesce a scacciare la sensazione di non avere prospettive, persi nel paesaggio lunare della laguna secca.

L'aspetto meglio descritto dal film è la descrizione del lavoro, dalla citata sequenza iniziale sui rapporti di sudditanza verso i capi alle immagini prive di qualunque poesia e ammantate della fatica di vivere, con timidi accenni di scioperi al momento in cui si comprende che si sta per perdere anche quel pesantissimo lavoro: non si esalta il mestiere, si descrive il disagio attraverso immagini - splendide quelle che illustrano il lavoro notturno, se possibile ancora più triste con le tenebre squarciate dai fari delle scavatrici in mezzo al buio nulla - che documentano i mestieri più ingrati per una volta senza lirismi o false esaltazioni della nobiltà della fatica.

Rassegna di pareri

Delicata satira sulla distruzione della dignità da parte dei sistemi economici. Intorno a Rulo si muovono figure di spessore umano nell’intreccio di rapporti che forzatamente si sfilacciano fino a rompersi. Emigrando a 2000 chilometri dalla propria casa il protagonista trova un nuovo lavoro in cantiere, ma dopo poco il cantiere verrà smantellato, nel frattempo Rulo ha perso l’amore. In chiave politica il film risulta davvero pungente, anche grazie al fatto che Trapero non assume mai una posizione ideologica lapidaria, ma descrive il mondo di questi poveri che non hanno niente se non la bontà d’animo e un residuo tentativo di essere dignitosi. L’analisi umana delinea quindi le conseguenze di una struttura politica in cui i soggetti deboli possono solo annaspare, un film schiettamente politico (o magari politicizzato) sarebbe stato probabilmente meno credibile e meno acuto. L’insistenza di inquadrature a mezzo busto, permette al regista di far muovere efficacemente gli attori in luci di 3/4 e di far cogliere nelle posture e nella gestualità, la somatizzazione del disperato struggle for life.

Fabrizio Salvetti, "Progetto Iride"

Risulta una pellicola di dettagli minimi, di climi, di lucide e nude osservazioni, un film che fa delle chiacchiere tra amici, delle piccole solidarietà quotidiane, un vero culto, senza tuttavia cadere nel costume esacerbato né nella visione conservatrice del barrio.

Diego Battle.

Lontano dalle passioni di Ken Loach, dalle furberie degli spogliarellisti di Full Monthy e dalla facile demagogia, Trapero traccia con tocco lieve e "malinconico" il ritratto di un proletario in bianco e nero, razza in estinzione fotografata tra voglia di cronaca e tentazione all'estetismo in un'America latina fuori dal tempo

Adelina Preziosi, "Segnocinema"

Chi sta dietro (e davanti) alla mdp di Mundo Grúa non compromette l’idea di sceneggiatura anteponendo vezzi stilistici e pesantezze ideologiche alla chiarezza di campo. E soprattutto sceglie un preciso punto di vista. Quello, dall’alto della cabina di una gru, di Rulo, uomo-pallone sospeso tra le altezze celesti e i silenzi meditabondi, ma trattenuto a terra dalle corde spesse e ruvide della vita. Un Charlot sudamericano, o un goffo Mario Merola che tiene tra le mani sporche d’olio la poesia di un amore tardivo e delicato, un’ex famiglia da mantenere e la nostalgia negli occhi per un passato di musicista rock. La sua trasferta in cerca di lavoro diventa un viaggio polveroso senza un fine preciso, avvolto come una vecchia coperta da un bianco e nero materico e commovente. O forse un ritorno a se stessi, ancora "alla fine del mondo". Un’elegia del leggero permanere in una vita pesante.

Raffaella Giancristofaro, "Duel"

Secondo me le gru meccaniche hanno due qualità. Da una parte c'è la questione visiva, che mi sembra molto forte: sono come animali giganteschi che gridano. Dall'altra, le gru, sono il termometro dello stato di una città, un simbolo di progresso. Da questo punto di vista, il film contiene anche un paradosso: il protagonista che va mano mano perdendo tutto quello che ha, lavora in una macchina che rappresenta l'opposto di quello che gli sta capitando.

Pablo Trapero

Biofilmografia:

Il regista è un ventisettenne con alle spalle esperienze nelle eccellenti scuole di cinema argentine (da cui proveniva anche Moebius) e qualche cortometraggio. A pieno titolo s'inserisce con questo film girato in 16 mm tra i bei film realizzati dai giovani registi porteñi come Pizza birra faso, successo al Torino Film Festival. L'attrazione fatale del profondo sud del suo paese gli fa spostare l'azione nella Patagonia in cui anche Agresti ambienta il suo L'Ultimo cinema del mondo, da lì prendeva le mosse il vecchio El Viaje di Solanas. Il suo stile viene considerato in patria vicino al naturalismo di Bruno Stagnaro e Adrián Caetano.

Egli nasce il 4 ottobre 1971; il suo maestro di montaggio è Miguel Perez, impara la direzione degli attori da Norma Alejandro, assistente per alcuni spot di Maria Luisa Bemberg, segue Fernando Birri nella creazione di alcuni documentari; prima del diploma della Universidad del cine, conseguito nel 1995, reallizza Mocoso Malcriado, un corto in 16 mm. del 1992, a cui fa seguito un altro corto con cui si diploma: Negocios.