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Odishon
Anno: 1999
Regista: Takashi Miike;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 17-01-2002


Odishon - Takashi Miike

Odishon

di Takashi Miike

sceneggiatura: Tengan Daisuke
da una novella di Murakami Ryu

fotografia: Yamamoto Hideo

montaggio: Shimamura Yasushi

costumi: Kumagai Tomoe

musica: Endo Koji

sonoro: Shibazaki Kenji

Giappone, 1999


Ishibashi Ryo ...... Aoyama Shigeharu
Shiina Eihi ...... Yamazaki Asami
Sawaki Tetsu ...... Aoyama Shigehiko
Kunimura Jun ...... Yoshikawa Yasuhisa
Ishibashi Renji ...... patrigno

Il chimismo ostile avvertito dall'amico di Aoyama è coltivato dall'interpretazione conturbante della giovane mantide e riscatta l'idea di fondo da quella che sarebbe stata soltanto una ottima riedizione della maniera di un horror psicologico con sviluppi gore nel finale: Miike Takashi è invece geniale (non a caso è nato il 24 agosto 1960) e tocca tutte le forme del genere filmico, ogni volta con l'intento di spiazzare, adottando il registro poetico, sentimentale, romantico in tutte le loro componenti, da quella dell'espressione di stupita angoscia infantile di fronte alla morte della madre a quella della figura muliebre inondata di luce stagliata sul mare, dal quadro familiare ricorrente della cena di Aoyama divorata dal figlio con le fidanzate, allo struggimento dell'attesa con il telefono in primo piano in terra, silente ed il suo silenzio rinfocola l'acredine; e gradualmente, sempre adottando allusioni a generi codificati, trasforma l'incantamento nell'orrore, nell'incubo. Un ultimo gioco se lo permette facendoci uscire temporaneamente dall'incubo, recuperando situazioni già mostrate, ripetendo frasi pronunciate che conducono al momento che potrebbe aver scatenato la furia e poi, evolvendo in modo apparentemente diverso dall'esplosione della fredda violenza documentata con compiacimento, ripiomba definitivamente nell'incubo. Salvo poi risolvere la tensione con un lieto fine reso amaro dal melodrammatico addio della languida fanciulla. Sono tutti accenni che liberano probabili sviluppi rubricati nell'immaginario degli spettatori e pervasi da una sottile ironia, come la casualità della macchia di caffè che cade proprio sulla scheda di Asami, la ragazza del destino.

La fredda determinazione con cui la ragazza pronuncia la speranza di trovarsi di fronte a qualcuno diverso dal clichè violento che ha conosciuto è avvolta da una nota azzurrognola che ritroviamo nel momento quasi onirico dell’uccisione per garrota del patrigno, torturatore dell’adolescente Asami, il cui racconto si dipana in alcuni incontri che fungerebbero da percorso seduttivo, inaugurato dalle frasi inserite nel curriculum, e invece sono preannuncio di soffocata determinazione di vendetta, che però noi non possiamo ancora prevedere e quell'aura bluastra anziché essere sintomo di malattia ("Il frammento di vetro ha ancora del sangue sui bordi; irradiato dai vapori dell'alba, è quasi trasparente. È di un blu senza contorni, quasi trasparente. Mi sono alzato in piedi, ho camminato in direzione di casa mia. Ho pensato di voler diventare come quel pezzo di vetro; di voler provare a riflettere io, allora, quella delicata linea bianca ondulata." Ryu Murakami, Blu quasi trasparente, Rizzoli, Milano 1993, p. 230), di un ché di "chimicamente sbagliato", prende un aspetto intimamente rassicurante, quasi la ragazza avvolta in quel blu si mostrasse indifesa e domandasse di prendersi cura di lei.

Un primo elemento si produce dunque a motivazione del film come grimaldello valido per penetrare (e il verbo non è casuale) il mondo delle giovani giapponesi, descritte quasi fossero ancora le bambole della tradizione, ma rese perverse da cause sconosciute al protagonista – e forse perciò più morbosamente seducenti; ipotesi di ricerca suffragata dal repertorio di aspiranti al ruolo che sfilano di fronte ai due funzionari televisivi (ricorrente è l'allusione al suicidio), che esplicitamente decidono di organizzare un’audizione solo per trovare una giovane moglie al vedovo quarantenne Aoyama.
Ma si avvertono altre linee che percorrono il film: quella che passa attraverso gli ambienti in costante mutazione in sintonia con la situazione affrontata dal protagonista, diventando orridi antri spogli popolati da orchi sciancati impegnati a suonare il piano in una deformante luce rossa di paura da pulitissime aule da audizione, dove si ripetono le prove di Salaam cinema di Makhmalbaf, giungendo alle stesse conclusioni (l'atteggiamento del regista è autoritario ed è vissuto come qualcosa di dispotico a cui ribellarsi, punendo la sua libidine); l'alternarsi di onirismo privo di effetti, affidati al colore, e di realtà, dove il colore è nascosto dal bianco dominante (mentre il percorso del film si produce al contrario per sottrazione: di certezze e di evidenza della luce, di speranze e di menomazioni annunciate), è in parte preannunciato dal metodo adottato per documentare i caratteri diversi delle giovani aspiranti, tratteggiate con pochi movimenti a camera fissa fino a un'accelerazione che giunge a sovrapporle in toni pop che contrastano molto con l'atmosfera asettica; la presenza della morte aleggia sul prologo – anche con toni di macabra ironia, come i fiori portati dal bambino al capezzale della madre ormai morta, augurali per una pronta guarigione – e incombe straripante dalla svolta surreale in poi, esplicitata da una frase lasciata cadere dalla giovane: "Vivere è un altro modo di apprezzare la morte".

Ricorrente – e autentica ossessione del film – l'antro con il fagotto, che contiene un moncherino di uomo incapace di parlare, senza tre dita, un orecchio, la lingua, quasi uomo-scatola (più beluino di quello di Kobo Abe), ritirato dal mondo, da cui si difende rinchiudendosi in un sacco, dopo il trattamento della giovane che vendica il genere femminile da ogni stupro; letterarietà che risulta retaggio anche del libro di provenienza del libero adattamento, di Murakami filtra nel film il residuo thriller che conviveva con la perturbanza già dello scrittore-regista di Tokyo decadence, ma si trova anche la nenia usata per scandire le torture, la sottile frattura quasi inesistente tra sesso e impulso all'annientare il corpo stesso che in un'altra situazione sarebbe invece oggetto di desiderio, la pungente sensazione di oggetti appuntiti che penetrano le membra, perlustrano i corpi, incidono la pelle, se ne ha percezione come osservandoli dall'interno del fisico in cui si insinuano gli aghi, sensazione aiutata dalla soggettiva degli occhi che guardano inorriditi e impotenti gli spilloni che stanno per bucare chirurgicamente le orbite; manca invece il desiderio di dare sfogo alla foia che esiste in Murakami, perché nel caso di Takashi questa è soffocata dal trauma iniziale, ma permane comunque la stessa componente sadica che si trova in Murakami, solo che in Audition la donna si fa carnefice dopo essere stata vittima, indossando la divisa della persecutrice – e operando un ennesimo ribaltamento con la ripetizione in tutt'altra situazione di una formula che poteva sembrare stantio innesco metalinguistico la prima volta che la pronuncia: "Sono felice di non essere l'eroina del film, bensì quella della realtà" – mentre officia l'epilogo di quello che è a tutti gli effetti un rito: la sevizia.